Giuseppe Tomasi di Lampedusa |
MARCELLO BENFANTE
Il personaggio. L’anniversario. Il 23 luglio del 1957 moriva il
principe-scrittore non ancora consegnato alla gloria: un autore che non fu
personaggio per lo scarso materiale mediatico sulla sua vita, ma che divenne
mito. Nel senso che quel giorno di sessant’anni fa moriva l’uomo, pressoché
sconosciuto al mondo delle Lettere, e si ponevano le condizioni perché sorgesse
il mito, il quale gode per statuto dei privilegi dell’eternità, ossia di una
perpetua attualità, ancorché fittizia e revocabile.
Allorché muore, il Lampedusa non è ancora l’autore del “Gattopardo”. Che ha
già scritto, ma non ancora pubblicato. Anche in questo caso, non diremo che non
è ancora nessuno, per il pubblico e per l’intellighenzia nazionale, ovviamente.
Diremo, pirandellianamente, che non è ancora qualcuno. Muore, cioè, prima di
essere irretito in uno schema interpretativo che avrebbe potuto influenzare il
prosieguo della sua carriera letteraria. È, se vogliamo, un’osservazione
lapalissiana. Non priva però di un’illuminante rivelazione. Giuseppe Tomasi si
congeda dal mondo e dalla fama giusto in tempo per non trasformarsi in un
“caso”. D’altronde, è la morte stessa a determinare una (e non la più
importante) delle condizioni da cui il “caso” sortisce.
Ma il dato più rilevante è che l’Italia degli ultimi anni Cinquanta non è
ancora provvista di un sistema di mass-media in grado di costruire miti
culturali a livello industriale.
Al suo apparire, nel 1958, il “Gattopardo” scatena un acceso dibattito tra
sostenitori e detrattori. La critica si divide sul genere in cui collocare il
romanzo, sull’orientamento ideologico da attribuirgli, sul suo valore
letterario, sul senso complessivo dell’opera. Nasce una querelle che
fondamentalmente non si è ancora chiusa. Ma intanto dell’autore si sa ben poco.
Le prime biografie sono piuttosto approssimative. Ma soprattutto è carente il
materiale mediatico. L’autore finalmente c’è, sebbene postumo. Manca invece il
personaggio (stavolta non in termini pirandellisti).
Per lungo tempo, quasi tutto ciò di cui il pubblico dispone è il ritratto
che del principe di Lampedusa fa Giorgio Bassani nell’introduzione al
“Gattopardo”, dove descrive, come appunto a fondare una mitologia, la magia
degli inizi in quell’estate del 1954 a San Pellegrino Terme, dove Giuseppe
Tomasi ha accompagnato il cugino Lucio Piccolo che, su invito di Eugenio
Montale, partecipa a un convegno letterario.
All’evento, «confortato dall’intervento della Televisione e di un manipolo
di fotoreporter», Giuseppe Tomasi è appena un gregario all’ombra di Piccolo,
cui ha arriso un’impronosticata fortuna letteraria grazie alla silloge di nove
liriche da cui sortiranno i suoi “Canti barocchi”. All’occhio un po’ ironico ma
già affascinato di Bassani, il Lampedusa appare come «un signore alto,
corpulento, taciturno: pallido in volto, del pallore grigiastro dei meridionali
di pelle scura». Leggiamo l’esotico e il meraviglioso in questa raffigurazione.
Ma anche un tentativo di estrapolare i sintomi di una morte che a lesti passi
s’avvicina. Per Bassani è un’immagine d’ordine (il «pastrano accuratamente
abbottonato», la «mazza nodosa» del bastone) da ancien regime che gli ricorda «un generale a riposo».
Qualche anno dopo Bassani è sulle tracce del dattiloscritto non firmato,
del “Gattopardo”, grazie alla segnalazione di «una cara amica napoletana». A
Palermo trova il manoscritto originale: «Un grosso quaderno a righe, riempito
quasi per intero dalla piccola calligrafia dell’autore» che si rivela «assai
più completo e corretto della copia dattilografica ». L’apologia di Bassani è
vividamente situata nel pittoresco. Il “caso” è dato proprio dall’estraneità di
Giuseppe Tomasi al mondo delle lettere, a prescindere dalla qualità altissima
del suo libro. Che infatti, a un primo e frettoloso esame, pare una
scaturigine anacronistica, sia nello stile che nei valori nostalgici e
aristocratici che ne sono il cuore tematico. Anche ai più attenti lettori
(perfino Sciascia in prima battuta) sfugge invece la modernità (o addirittura
la postmodernità) di un impianto narrativo che usa il modello del romanzo
storico per esprimere una contemporaneità profetica.
A consegnare opera e autore al successo di massa, che nel medesimo tempo
conferma e tradisce l’ambiguità inafferrabile del romanzo, sarà il cinema, nel
1963, con il film, splendido ma parziale, di Luchino Visconti. Con la riduzione
a malinteso motto di spirito dell’aforisma del cambiare tutto per lasciare
tutto immutato, il Gattopardo si traduce in gattopardismo, cioè in
categoria della mistificazione divulgativa. Non è un caso che il 1963 è anche
l’anno in cui si dà convegno, proprio a Palermo, un’avanguardia agguerritissima
di scrittori che vogliono mettere in soffitta le forme classiche della
letteratura. Il “Gattopardo” però è già oltre, molto più avanti. E di anno in
anno, di lettura in lettura, si rivela incessantemente un’opera aperta che si
presta a molteplici sguardi perlustrativi.
La Repubblica Palermo, 23 luglio 2017
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