Karl Marx |
SALVATORE FERLITA
Nel 1860 l’elogio sul “New York Tribune” firmato dal filosofo tedesco la
cui opera, “Il Capitale”, compie 150 anni La cavalcata lungo la storia delle
dominazioni e l’auspicio di un futuro di libertà
A leggere per primi in Italia il “Capitale” di Karl Marx furono, guarda
caso, i siciliani. Siamo nel 1873, il primo libro dell’opera monumentale del
filosofo ed economista tedesco è uscito da sei anni: il palermitano Giuseppe di
Menza, membro della rivista “Scienze morali e politiche” e dell’Accademia di
Scienze di Palermo, dà forma a un saggio pioneristico sul “Capitale”, facendo
riferimento a fonti indirette, e lo intitola “Evoluzione del socialismo. Carlo
Marx e le sue dottrine”. Trascorsi oggi centocinquant’anni dalla pubblicazione del testo chiave del
marxismo, sono tante le iniziative in calendario: a Palermo è stato l’economista
Riccardo Bellofiore dell’università di Bergamo a pronunciarsi sull’attualità
dell’opera all’Istituto Gramsci, Ma la ricorrenza offre l’opportunità di
mettere in luce il rapporto intrinseco che lega Marx all’Isola.
Giuseppe di
Menza nel suo studio argomenta come Marx abbia commesso il fallo di considerare
il capitale “sterile”, carente di una vera e propria energia produttiva; di
conseguenza, la prosperità poteva venire solo dal lavoro. Quasi alla stessa
altezza cronologica un altro siciliano, Vito Cusumano, nato a Partanna e
allievo di Adolph Wagner in Germania nel biennio 1872-1874, pubblica uno
scritto dal titolo “Le scuole economiche della Germania in rapporto alla
questione sociale”, nel quale riconosce i meriti scientifici di Marx pur
discordando con l’idea dell’infecondità economica del capitale. Sarà Cusumano a
proporre ad Achille Loria, allora giovane laureando alle prese con una tesi
sulla rendita legata alla terra, di approfondire lo studio di Marx e degli
altri socialisti coinvolti nella discussione sulla teoria del valore.
La Sicilia, dunque, quale privilegiato laboratorio di analisi e di
riflessione sul “Capitale”, ma anche presente essa stessa nel libro quarto, a
proposito della teoria del plusvalore. C’è di più, però: l’autore di “Critica della
filosofia del diritto di Hegel” nel fatidico 1860 dedicherà alla Sicilia e ai
siciliani un articolo destinato alla “New York Tribune” , il cui incipit
imperioso val la pena di riportare: «In tutta la storia della razza umana
nessuna terra e nessun popolo hanno sofferto in modo altrettanto terribile per
la schiavitù, le conquiste e le oppressioni straniere, e nessuno ha lottato in
modo tanto indomabile per la propria emancipazione come la Sicilia e i
siciliani». Marx presenta subito la doppia faccia dell’Isola, la sua natura da
Giano bifronte, (scomodando il mito: «Quasi dal tempo in cui Polifemo
passeggiava intorno all’Etna, o in cui Cerere insegnava ai siculi la
coltivazione del grano sino ai nostri giorni…»): la Sicilia è stata, scrive
Marx, da un lato il teatro di invasioni e scontri quasi incessanti, e
dall’altro essa si è mostrata una terra «di intrepida resistenza». Egli
definisce i siciliani «un miscuglio di quasi tutte le razze del sud e del nord;
prima dei sicani aborigeni con fenici, cartaginesi, greci, e schiavi di
ogni parte del mondo, importati nell’isola per via di traffici o di guerre; e
poi di arabi, normanni, e italiani».
Ma l’aspetto che più gli preme è che questo popolo, nel corso di tutte le
trasformazioni e modificazioni, ha lottato e continua a lottare per la propria
libertà. Per lungo tempo, aggiunge Marx, la Sicilia fu il campo di battaglia
dei greci e dei cartaginesi; le sue città diventarono il centro di irradiazione
dell’oppressione e della schiavitù, che raggiunsero anche l’interno dell’isola.
Ma il filosofo tiene a precisare che «questi primi siciliani, tuttavia, non
persero mai l’occasione di lottare per la libertà, o almeno di vendicarsi
quanto più potevano dei loro padroni cartaginesi e di Siracusa».
Poi fu la volta dei romani, nei confronti dei quali Marx pronuncia un
giudizio senza appello: «Le terribili crudeltà dei proconsoli, pretori,
prefetti romani sono note a chiunque abbia un certo grado di familiarità con la
storia di Roma, o con l’oratoria ciceroniana. In nessun altro luogo, forse, la
crudeltà romana arrivò a tali orge». Del resto, chi non riusciva a pagare i
tributi schiaccianti richiesti, veniva venduto come schiavo. Eppure, precisa
Marx, «sia sotto Dionigi di Siracusa che sotto il dominio romano, in Sicilia
accaddero le più terribili insurrezioni di schiavi, nelle quali popolazione
indigena e schiavi importati facevano spesso causa comune».
È chiaro come Marx proponga una tesi che ribalta con forza l’immagine dei
siciliani per nulla vocati all’insurrezione, soggiogati irrimediabilmente dalle
dominazioni susseguitesi nell’Isola. Arrivarono i mori, ma i siciliani
provarono sempre a resistere, a mantenere o riconquistare piccoli privilegi.
«Quando le prime luci avevano appena cominciato a diffondersi sulle tenebre
medievali – chiosa efficacemente il tedesco – i siciliani avevano già ottenuto
con le armi non solo varie libertà municipali, ma anche i rudimenti di un
governo costituzionale, quale allora non esisteva in nessun altro luogo ». Ma
non solo: anticipando le altre nazioni europee, i siciliani decretarono col
voto il reddito dei loro governi e dei loro sovrani. In tal modo il suolo
siciliano si è sempre dimostrato fatale per gli oppressori e gli invasori, e «i
Vespri siciliani restarono immortalati nella storia ».
Se tutto ciò non bastasse, nonostante le vessazioni e i soprusi inflitti
dagli Aragonesi, dagli Asburgo e dai Borboni, gli abitanti della Sicilia in
qualche modo riuscirono a serbare i loro privilegi politici. Venne il turno
degli inglesi, che ai siciliani si allearono contro Napoleone per abbandonarli
poi al loro destino. A questo punto Marx si infervora come solo lui sa
fare: «Ma quasi tutte le terre sono ancora nelle mani di un numero
relativamente piccolo di latifondisti o baroni, la stragrande maggioranza degli
agricoltori lavora esclusivamente a vantaggio dell’esattore delle imposte e del
barone pur producendo il famoso grano siciliano e frutti eccellenti, costoro
vivono miseramente di fagioli tutto l’anno».
Il grande economista, alla fine, fa una zoomata sul presente: «Ora la
Sicilia è di nuovo insanguinata, e l’Inghilterra è la distaccata spettatrice di
queste nuove orge dell’infame Borbone, e dei suoi non meno infami favoriti,
laici o clericali, gesuiti o uomini d’arme ».
Non si leva però un grido di indignazione in tutta Europa, aggiunge
sorpreso. Nessun capo di governo e nessun parlamento pretende la messa al bando
«di quell’idiota assetato di sangue di Napoli», ossia Francesco II. L’articolo
si chiude con un cipiglio profetico: «I napoletani e i siciliani saranno alla
fin fine i vincitori, anche sotto un Murat o qualsiasi nuovo dominatore. Ogni
cambiamento non sarà che verso il meglio».
Il 1861 è alle porte e Garibaldi avanza col suo esercito in direzione di
Palermo. Da qui però a sostenere che i siciliani saranno i trionfatori ce
ne corre.
La Repubblica Palermo, 15 luglio 2017
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