ATTILIO BOLZONI
È una mafiosità che sopravvive di simboli. È un risentimento antico che si
tramanda generazione dopo generazione, è sempre mafia ma senza più mafiosi in
carne ed ossa che mettono terrore e che comandano. Nelle periferie miserabili e
cenciose di Palermo ma anche nel cuore della città ricca spezzano busti di
marmo e bruciano foto di Giovanni Falcone. La repressione poliziesca e
giudiziaria ha travolto venticinque anni dopo quella mafia rozza e violenta —
ce n’è già un’altra molto più profumata, nascosta e politicamente corretta — ma
la rivoluzione civile e culturale ha trascinato con sé solo una piccola parte
di popolazione.
QUEGLI altri non si arrendono, la loro mafiosità provano a
sprigionarla come possono. Come hanno fatto alla scuola dello Zen, acronimo di
zona di espansione nord diventata famosa nel recente passato come piazza di
spaccio e piccoli trafficanti. Come hanno fatto alla scuola Alcide De Gasperi,
che è quella dove negli ultimi mesi gli insegnanti hanno coinvolto i bambini in
uno studio sulle stragi siciliane dell’estate del 1992 e che è la scuola dei
nipoti di Paolo Borsellino, i figli di Manfredi.
Le città che si mischiano, gioco di specchi, la borgata e i palazzi degli
impiegati della Regione, delle banche, degli avvocati e dei commercialisti.
L’odore del sangue e della povertà e l’odore dei soldi, il crimine che spara e
quello che fa intrallazzi, la struttura militare e la borghesia mafiosa.
No, non sono solo “vandalismi”, non sono solo “ragazzate”. C’è qualcosa di
più profondo in questi gesti che provengono da un mondo che non riesce più a
esprimersi come vorrebbe ma vuole far sapere a tutti che esiste, che c’è. Che non
è mai scomparso.
Bisogna tornare sui simboli per provare a decifrare il significato di
quella statua usata come ariete allo Zen e quella foto bruciata tra i palazzi
della città nuova.
Cosa c’è di più simbolico di quell’omicidio compiuto per esempio la mattina
del 22 di maggio, alla vigilia dell’anniversario della strage di Capaci? La
vittima si chiamava Giuseppe Dainotti, aveva 67 anni, era un mafioso ed era
stato scarcerato nel 2014. Da tempo si sapeva che quello lì era in pericolo —
c’erano intercettazioni di polizia che ascoltavano voci di boss che lo volevano
morto per partite di stupefacenti sparite e “tragedie” che lui metteva nel clan
— ma l’hanno fatto secco proprio a ventiquattro ore dalla commemorazione di
Giovanni Falcone quando era atteso a Palermo il Presidente della Repubblica
Sergio Mattarella e tutto lo Stato al gran completo. Lo potevano fare prima,
l’avrebbero potuto fare dopo, l’hanno fatto però proprio quel giorno. Per
dimostrare che sono forti come un tempo, che possono fare ancora quello che
vogliono.
Non è così, ma così vogliono farci credere.
Simboli. Come quei rampolli di pseudo aristocrazia mafiosa che “giocano” su
Facebook ed esibiscono lì le loro ricchezze, che manifestano in maniera
pacchiana la loro potenza (i loro padri e i lori nonni piuttosto si sarebbero
fatti uccidere piuttosto che vantarsi pubblicamente di qualcosa e con qualcuno)
come quelli di Gomorra, napoletani che sino a qualche anno fa non
rivolgevano neanche il saluto e la parola.
Che cosa c’è di più simbolico delle performace di “Salvuccio” Riina, il
figlio del capo dei capi, che scrive un libro su suo padre e che trova
ospitalità nel salotto di Bruno Vespa per offrire all’Italia l’immagine di una
tranquilla e felice famiglia di Corleone?
La mafia che oggi impone le sue leggi non la conosciamo abbastanza. La
mafia che tutti noi abbiamo conosciuto cerca di non morire. Anche con quelle
vigliaccate allo Zen e alla scuola Alcide De Gasperi.
La Repubblica, 11 luglio 2017
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