Il boss mafioso Totò Riina |
PIPPO RUSSO
L’ULTIMA è la richiesta del bonus bebè da parte della piccola di casa
Riina, Lucia. In realtà, nel giro di circa un anno abbiamo avuto a che fare
ripetutamente, nostro malgrado, con vicende della famiglia Riina e non per
ragioni giudiziarie, quelle le conosciamo benissimo e riguardano Totò “u curtu”
e i suoi due figli maschi, Giovanni condannato all’ergastolo per quattro
omicidi e Salvo che ha scontato una pena di otto anni e dieci mesi per
associazione mafiosa. No, si tratta di eventi di diversa natura che hanno scatenato
puntualmente polemiche e sconcerto. Cominciamo — ricordate? — con il libro di
Salvo Riina junior dall’accattivante titolo “Riina family life”, un tentativo
audace di dipingere la sua famiglia come un gentile focolare domestico animato
da sani valori della tradizione e da solidi principi cattolici. Il novello
scrittore fu invitato a “Porta a porta” da Bruno Vespa con conseguente acceso
dibattito sull’opportunità di offrirgli la tv di Stato come palcoscenico e
cassa di risonanza.
Lo stesso Salvuccio, che in alcune intercettazioni non ha
lesinato immagini truculente a proposito delle stragi del ’92, si è reso
protagonista di un ulteriore episodio che ha colpito non poco l’opinione
pubblica quando è stato chiamato a fare da padrino, a Corleone, al battesimo di
una nipotina.
La vicenda suscitò scalpore, confermando critiche mai sopite verso una
Chiesa giudicata a volte eccessivamente “misericordiosa” nei confronti di chi,
mafioso conclamato, non ha mai apertamente preso le distanze dal sodalizio
criminoso d’appartenenza. Ciò nonostante i ripetuti richiami dei vescovi
siciliani e di tre pontefici, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco,
quest’ultimo piuttosto severo fino al punto da infliggere la
canonica scomunica a boss e gregari che non si ravvedono.
A tal proposito, basta andare indietro di alcuni mesi e ci ritroviamo a
Corleone in presenza dell’ennesimo “inchino” blasfemo, di una assai discutibile
“fermata” di una processione religiosa dinanzi all’abitazione di qualcuno “che
conta”, non per virtuosi meriti speciali ma perché ancora, evidentemente,
temuto e riverito. La vara di San Giovanni Evangelista sosta per qualche minuto
sotto il balcone di Ninetta Bagarella, moglie del “capo dei capi” di Cosa
nostra e sorella del famigerato Leoluca. Lei, affacciata con le sorelle,
sorride compiaciuta. Decisamente meno compiaciuti il comandante dei carabinieri
e il dirigente della polizia che lasciano precipitosamente il corteo e corrono
a fare rapporto ai superiori e alla procura della Repubblica. È cronaca dei
giorni scorsi la richiesta al Comune di Corleone, in atto retto da tre
commissari perché sciolto per mafia, del cosiddetto “bonus bebè” da parte della
minore dei fratelli Riina, Lucia. Un sussidio normalmente concesso a chi si
trova in precarie condizioni economiche.
Pare non sia così: lo stesso Totò, intercettato, fa riferimento a un
ragguardevole tesoretto ben nascosto. Il Comune di Corleone risponde picche,
intanto per cavilli formali. Pure qui, un diluvio di prese di posizione a
favore e a sfavore in nome dell’antico dilemma se i figli devono pagare le
colpe dei padri. Lucia protesta minacciando addirittura di rinunciare alla
cittadinanza italiana, dimenticando di avere dichiarato in un’intervista di
essere onorata del suo cognome. Solo una filiale esagerazione?
Infine lui, Totò, il capo indiscusso, mandante e autore diretto di
innumerevoli assassinii e massacri secondo sentenze definitive emesse in nome
del popolo italiano. Non avremmo dovuto più sentir parlare del boss di
Corleone, fattosi strada alla conquista del vertice della Cupola tra uccisioni
e stragi, finalmente in galera per sempre. Invece sta sulle cronache, e non per
importanti rivelazioni, no. Piuttosto si discute se nelle sue condizioni, di
anziano malato, debba stare ancora in carcere, visto che una pronunzia della
Cassazione afferma che ognuno ha diritto a una morte dignitosa. In realtà,
non dice che bisogna mandarlo a casa, non potrebbe: basta solo spiegare perché
deve rimanere sotto il duro regime del 41 bis. Motivi probabilmente ce ne sono
a palate: ci penseranno i magistrati competenti a elencarli nel rifiutare il
differimento della pena o i domiciliari.
Fra l’altro, risulta che sia curato al meglio. Ed è su Totò Riina, in
conclusione, che mi voglio soffermare. Un mafioso del calibro suo mette nel
conto di poter essere ucciso, di non morire di vecchiaia. Però, nel caso in cui
riesca a rimanere vivo, mi piacerebbe sapere, forse ingenuamente, quali
sentimenti e pensieri ci sono, se ce ne sono, in una mente sicuramente
affollata di fantasmi ricoperti di sangue.
Totò Riina, insomma, ben consapevole dell’approssimarsi del “game over”,
per quale motivo non prende in minima considerazione l’eventualità — magari,
chissà, l’Onnipotente esiste — di dare un contributo alla verità sugli
inquietanti e oscuri scenari in cui si è mosso da sinistro protagonista, in
combutta con personaggi dal colletto bianco, in cinquant’anni della nostra
storia repubblicana? Tutto il male commesso, l’immenso dolore provocato, non lo
tormenta mentre sente la vita fuggire via? Certo, è vero, non tutti i criminali
sono come l’Innominato, di manzoniana memoria, scosso fino alla redenzione
dalla frase di Lucia Mondella: «Dio perdona tante cose per un’opera di
misericordia».
*L’autore è ex coordinatore della Rete
La Repubblica Palermo, 5 luglio 2017
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