Una
intervista a Franco Lorenzoni di Daniele Novara, apparsa sulla rivista
“Conflitti”.
1)
Da dove nasce la tua scelta di fare il maestro elementare? Come sei arrivato a
una professione che oggi gli uomini tendono a snobbare?
Da
ragazzo facevo politica credendoci con tutto me stesso. Avevo 15 anni nel 1968,
quando in molti pensavamo di poter rovesciare il mondo. Entrai a “Lotta
continua” e il 25 aprile del 1974, quando scoppiò la rivoluzione dei garofani,
sono partito immediatamente per Lisbona, dove sono rimasto quasi due anni
lavorando come corrispondente per il nostro giornale. Ho partecipato a tutte le
fasi di quella straordinaria rivoluzione pacifica che ha liberato il Portogallo
da 48 anni di fascismo, convincendo mio padre che quella era la mia università,
così non mi sono mai laureato. Quando la sinistra rivoluzionaria entrò in crisi
e precipitammo negli anni bui del terrorismo ero smarrito ed ebbi la fortuna di
incontrare per caso un amico che stava facendo la maturità magistrale per
diventare maestro. La feci anch’io senza troppa convinzione, ma ebbi la
straordinaria fortuna di incontrare il gruppo romano del Movimento di
Cooperazione Educativa, che è stato il luogo a cui devo tutto, riguardo alla
mia formazione come maestro. Il MCE mi attrasse perché era a suo modo anche
quello un gruppo rivoluzionario. Si trattava tuttavia di una rivoluzione più
sottile, concreta, corporea, al tempo stesso intima e sociale. Nel territorio
dell’educazione, infatti, è evidente che se hai il desiderio di aiutare a
crescere e tentare di aprire nuove strade agli altri, ai più piccoli, devi
innanzitutto metterti in gioco e provare a conoscere qualcosa di più di te
stesso. Ed è un processo lungo, che non finisce mai.
2)
Nei tuoi libri parli spesso del pensiero magico dei bambini valorizzandolo
moltissimo. Non ti sembra che il mondo degli adulti lo stia soffocando?
Non
parlerei di pensiero magico, ma di cultura infantile. Una cultura che risponde
a regole parzialmente diverse dalla razionalità adulta. Per i bambini non ci
sono confini rigidi tra dentro e fuori, tra ciò che è vivo e ciò che è morto.
Spesso scambiano il particolare col generale, come noi adulti facciamo nei
sogni. Nel gioco, inoltre, bambine e bambini praticano di continuo la
sospensione dell’incredulità, che è una qualità umana fondamentale, di cui sono
maestri. Senza quella sospensione non potremmo immergerci in un romanzo, andare
a teatro o vedere un film. Non ci sarebbe l’arte.
Grazie
ad Alessandra Ginzburg, nel MCE romano indagammo a fondo i connotati del
pensiero infantile, accorgendoci della paura di caos e sperdimento che a volte
suscita in noi adulti. Se vogliamo ascoltare davvero i bambini, dobbiamo
accogliere il loro presente tutto intero, sospendendo l’incessante pressione
che esercitiamo su di loro perché crescano e smettano di essere troppo diversi
da noi. Dobbiamo imparare ad accogliere tutte le diversità e moltiplicare i
linguaggi in modo da dare voce anche a chi sembra non avere parole.
3)
Anni fa lanciasti un appello contro l’invadenza digitale a scuola e in
famiglia: i bambini sono in pericolo?
I
bambini sono sempre in pericolo perché il mondo adulto tollera a stento la
libertà e l’anarchia dell’infanzia, narrata magistralmente da Elsa Morante ne
Il mondo salvato dai ragazzini. In questo momento trovo particolarmente
pericolosa l’alleanza tra l’onnipresente invadenza del mercato tecnologico e
una certa pigrizia e assuefazione adulta, che nei confronti dei bambini si
mostrano al tempo stesso ansiosi e distratti. Bambine e bambini, nel loro lento
e faticoso processo di adattamento ci imitano. Se stiamo sempre attaccati ai nostri
smatphone o a schermi d’ogni dimensione, è evidente che per loro quegli schermi
diventano irresistibili oggetti di desiderio fin dal primo anno di vita.
Ora,
poiché le case sono piene di apparati tecnologici che occupano una smisurata
quantità del tempo di gioco dei bambini, ritengo che, nella scuola
dell’infanzia e almeno nei primi due anni della scuola elementare, sia
necessario proporre altri giochi e altre attività che abbiano al centro il
corpo tutto intero che esplora, si sporca e si muove conoscendo la terra
toccandola e coltivando, uscendo ad osservare vento e nuvole anche in città,
manipolando ogni sorta di materiali e costruendo con le mani. Una parte
importante della nostra intelligenza si può attivare solo nel corpo a corpo con
la realtà, quando ci incontriamo, ci scontriamo, ci accordiamo con gli altri in
quella straordinaria palestra delle relazioni umane in cui si trasforma ogni
classe, quando riusciamo (talvolta a fatica) a costruire una comunità fondata
sulla curiosità reciproca e la capacità di continuare sempre a stupirci gli uni
degli altri, non dando nulla per scontato.
4)
“Con il cielo negli occhi” è il titolo di un tuo famoso libro che racconta
un’esperienza in cui i bambini sono veri protagonisti nella natura. Qual’era lo
spirito pedagogico di questa esperienza?
Penso
che la natura sia una straordinaria compagna di giochi e non c’è manufatto
umano comparabile per complessità e ricchezza di evocazioni a un albero, a un
paesaggio, a un cespuglio in cui intrufolarsi o a una stella. Il primo anno che
insegnavo a Giove un giorno un ragazzino di nome Giancarlo venne in classe con
in mano un foglio a quadretti strappato e tratteggiato di azzurro. Indicando un
grappolo di stelle disegnate a matita fece molte domande. Io non risposi, mostrai
il foglio agli altri bambini e decidemmo, la sera stessa, di provare a
disegnare tutti alla maniera di Giancarlo. Da quella sua intuizione è nata una
sperimentazione didattica che ho poi narrato in “Con il cielo negli occhi”.
Ancora oggi, dopo trentatré anni, l’idea di disegnare uno sguardo che
s’interroga continua ad affascinarmi. Per questo colleziono e propongo a tutti
di osservare tramonti per aspettare il solstizio, disegnando finestrelle
astronomiche, come le chiamarono allora i bambini.
5)
Ci racconti qualcosa sulla Casa Laboratorio di Cenci?
Nel
1980, con un gruppo di insegnanti del MCE e una attrice di teatro fondammo una
casa-laboratorio, ricostruendo e adattando poco a poco un vecchio casale che si
trovava isolato in fondo a una valle umbra, vicino ad Amelia. L’idea era quella
di creare un luogo di ospitalità libera e aperta in cui sperimentare ciò che
non è possibile fare a scuola, come inoltrarci nel bosco od osservare il cielo
di notte. Un luogo che permettesse a grandi e bambini di sperimentare, nel
tempo lungo di stage e campi scuola di più giorni, un contatto diretto con gli
elementi del cosmo. Da allora molte cose si sono trasformate e, con l’arrivo a
Cenci di Roberta Passoni, le nostre sperimentazioni in campo ecologico,
teatrale e interculturale si sono arricchite e articolate maggiormente,
comprendendo esperienze orientate all’inclusione dei più fragili.
6)
Di tutta la tua esperienza di maestro, qual è la scoperta più importante che
vivi e che vuoi comunicare ai nostri lettori?
Nel
libro “I bambini pensano grande” ho riportato molti dialoghi raccolti in classe
perché volevo mostrare quanto possa andare lontano e in profondità il libero
ragionare sulle cose più diverse, quando abbiamo il coraggio di fare meno cose,
ci regaliamo tempo e siamo in
grado di creare un contesto di ascolto privo di giudizio.
Dopo
quasi quarant’anni, quando entro in classe la mattina sono ancora pieno di
desiderio, perché la cosa che più mi piace è ascoltare come bambine e bambini,
attraverso gesti e parole, cercano di dare un qualche ordine a un mondo che
forse ordine non ha. So per esperienza che, quando riusciamo a dare dignità ai
pensieri e ai ragionamenti di tutti, davvero di tutti, sperimentiamo la
felicità del conoscere insieme, del costruire un sapere condiviso tutto nostro.
Quello che ha fatto dire in quinta elementare a Marianna, dopo quattro mesi
trascorsi a esplorare “La scuola di Atene” di Raffaello, una frase che a mio
avviso rivela ciò che noi insegnanti non dovremmo dimenticare mai: “Raffaello
ha fatto veri i filosofi per metà, noi per l’altra metà”. Se non trovi il modo di fare tuo un quadro, un
libro, un argomento di storia e anche un teorema, se non lo riscrivi dandogli
vita a modo tuo, con parole e sentimenti e ragionamenti che non possono essere
che tuoi, quell’oggetto culturale rimarrà distante, inerte, morto. La cultura o
è relazione viva o non è.
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