GIOVANNI TIZIAN
I successi
delle inchieste antimafia e i boss murati vivi al 41 bis sono solo una parte
della realtà. Perché i clan hanno cambiato modo di agire e hanno ripreso ad
avvolgere il paese nella loro rete. Ecco come
L’odore stantio di un
passato che ritorna. Che ci riporta indietro di anni, a prima dell’ascesa dei
Corleonesi e di Totò Riina, capo dei capi di Cosa nostra. Prima della stagione
delle bombe e delle stragi. Ci riporta alla stagione dell’aristocrazia mafiosa
palermitana, del “principe” Stefano Bontate. A quell’idea di mafia
fatta di mediazioni, accordi, dialogo, che non è mai stata sconfitta. Nel
lungo periodo hanno vinto gli strateghi dell’inabissamento, strenui oppositori
dell’attacco frontale alle istituzioni democratiche. I principi sono tornati, e
li troviamo capi e reggenti delle cosche. Hanno resistito al carcere, alle
confische, alle faide, ai pentiti. Forti di una società che ha bisogno di loro
e dei loro servigi. E mentre le cronache riportano la marcia trionfale
dell’antimafia giudiziaria, dai territori, da Palermo, Reggio Calabria, Roma,
Bologna, Milano, Torino, si levano segnali inequivocabili: lo Stato non
ha vinto.
Spieghiamoci meglio: se ci fermassimo alle statistiche della repressione giudiziaria potremmo affermare senza alcun dubbio che le mafie sono destinate a un’inesorabile sconfitta. Se il nostro sguardo si fermasse, senza andare oltre, sulle gabbie del 41 bis dentro le quali sono murati vivi capi mafia di due generazioni criminali potremmo essere oltremodo soddisfatti della lotta ai clan. Ma ridurre la guerra ai mafiosi a una mera questione di ordine pubblico, faccenda da sbirri, giudici e manette, è un suicidio. E se provassimo, invece, a ribaltare il campo d’osservazione spostandoci sull’altra riva del fiume? Dal lato in cui cioè i fatti si manifestano in tempo reale, molto prima dell’arrivo delle sirene e dei detective, di quella giustizia, insomma, che per ovvi motivi arriva solo a crimine compiuto.
Claudio Fava |
Chi di notte taglia la testa del busto di Giovanni Falcone a Palermo o chi devasta la stele che ricorda il giudice Livatino ad Agrigento è, probabilmente, solo un ignorante. E tale grazie al fallimento educativo che non permette la trasmissione della memoria del passato. Ma c’è qualcosa in più a darci la sensazione di una mafiosità quotidiana. È quella cultura dell’arroganza, dell’impunità, della prepotenza, della prevaricazione e della vandalizzazione della bellezza che vediamo prevalere ovunque attorno a noi. Bisogna dirlo: non siamo in grado di offrire valide alternative a chi vive nel disagio sociale o, peggio, in ambienti criminali. Colpisce la storia del quindicenne della Locride che ha scritto al boss del paese per comunicargli che lui è pronto, vuole essere un suo soldato. È stata la figlia del capoclan, compagna di classe del ragazzo, a consegnare la lettera nelle mani del padre.
Ancora: diamo ormai per scontato che le organizzazioni criminali spostino il consenso elettorale. In questa resa c’è qualcosa di patologico. Come se fossimo vittime di una sindrome di Stoccolma collettiva. Ostaggi di un potere che ci ha assuefatto e sedotto. Siamo così assuefatti che pochi conosceranno la vicenda di Niscemi, il paese del Mous, acronimo delle contestatissime parabole della Marina americana, in provincia di Caltanissetta. Eppure c’è un elemento della vicenda che rientra in quei segnali inquietanti di resa collettiva all’arroganza del sistema criminale. Il mese scorso l’ex sindaco, Giovanni Di Martino, ha scoperto perché cinque anni fa non è stato rieletto: l’avversario che lo ha sconfitto per pochi voti, è la tesi dei pm, aveva il sostegno della cosca locale.
Identikit di Matteo Messina Denaro |
Dal’92-’93, apice della strategia della tensione messa in atto da Cosa nostra, a oggi è indubbio che i risultati ottenuti siano notevoli. Tuttavia c’è da chiedersi che tipo di mafia fosse quella e quali caratteristiche, invece, abbiano oggi le mafie contemporanee. E perché la prima abbia perso, mentre persistono e si rafforzano le seconde. Queste si possono dire violente nella misura in cui riescono a esercitare il loro potere di coercizione senza nemmeno dover trasformare le nostre città in Far West. Sanno influenzare, interferire, manipolare le decisioni economiche e politiche con il denaro e la corruzione. È una mafia, insomma, in piena attività che usa politici, imprenditori, professionisti, ma anche magistrati e forze dell’ordine, per i propri scopi e viene utilizzata dagli stessi per risolvere questioni private.
La statua di Falcone danneggiata a Palermo |
Di convergenze criminali sanno qualcosa a Reggio Calabria. Qui una cupola ha gestito da sempre i processi decisionali della città. Ha piazzato governanti e deciso finanziamenti. Accadeva già 30 anni fa, e molti dei sospettati di oggi sono gli stessi di allora. La ’ndrangheta e la massoneria, gli stessi casati criminali di un tempo, boss e spioni infedeli. Cosa è cambiato? Qualche denuncia in più, qualche associazione antimafia che prima mancava, ma quel potere che negli anni ’70 ha trasformato Reggio Calabria in laboratorio di un sistema criminale “misto”, poi mutuato anche da altre organizzazioni, non intende mollare di un centimetro.
La lapide del giudice Livatino danneggiata |
Eppure, secondo Fava, se
la sinistra avesse fatto tesoro dell’insegnamento di Enrico Berlinguer, della
sua “questione morale”, e l’avesse applicata alla lotta alla mafia, non
assisteremmo oggi a un inquietante ritorno al passato. «È come se in assenza
dell’odore del napalm aspettassimo giorni più tragici per ritornare al fronte,
come se la lotta alla mafia fosse solo un problema di polizia giudiziaria.
Intanto la criminalità organizzata continua a condizionare la politica,
interferisce nei processi finanziari ed economici».
Che la sola repressione non sia sufficiente è scritto nei provvedimenti stessi delle procure: facciamo i conti con famiglie mafiose arrivate alla quarta generazione, che dominano la scena da mezzo secolo nonostante arresti, carcere duro e confische. «Queste famiglie sono state capaci di trasmettere alle nuove leve la forza criminale e il senso di impunità, nonostante tutto» aggiunge il vicepresidente. «La mia impressione, ciò che mi preoccupa davvero», continua, «è che si sia tessuta una tela di potere di cui la mafia è componente essenziale ed è una tela che condiziona processi politici ed economici, una sorta di scambio reciproco tra diversi mondi».
Conferme in questo senso giungono da più luoghi, centrali nelle strategie criminali, eppure apparentemente periferici per l’attenzione dei media. La cupola masso-mafiosa di Reggio Calabria, il riciclaggio al Nord e in Europa, il connubio tra clan e logge a Trapani. Qui, ad esempio, alle ultime elezioni un candidato si trovava ai domiciliari e un altro, il senatore Antonio D’Alì, in attesa di un’udienza che stabilisse se disporre la misura dell’obbligo di dimora chiesta dalla procura di Palermo. E sempre nel trapanese, a Castelvetrano, paese del super latitante Matteo Messina Denaro, il filo che lega grembiuli e mafiosi fa da sfondo al recente scioglimento per mafia del Municipio. «A Castelvetrano Messina Denaro ha costruito una rete di protezione nel ceto medio, nella borghesia cittadina. Non si tratta di omertà, attenzione. Ma di convenienza. La classe imprenditoriale ha trovato in Cosa nostra un partner ideale. E questo avviene anche altrove.
Che la sola repressione non sia sufficiente è scritto nei provvedimenti stessi delle procure: facciamo i conti con famiglie mafiose arrivate alla quarta generazione, che dominano la scena da mezzo secolo nonostante arresti, carcere duro e confische. «Queste famiglie sono state capaci di trasmettere alle nuove leve la forza criminale e il senso di impunità, nonostante tutto» aggiunge il vicepresidente. «La mia impressione, ciò che mi preoccupa davvero», continua, «è che si sia tessuta una tela di potere di cui la mafia è componente essenziale ed è una tela che condiziona processi politici ed economici, una sorta di scambio reciproco tra diversi mondi».
Conferme in questo senso giungono da più luoghi, centrali nelle strategie criminali, eppure apparentemente periferici per l’attenzione dei media. La cupola masso-mafiosa di Reggio Calabria, il riciclaggio al Nord e in Europa, il connubio tra clan e logge a Trapani. Qui, ad esempio, alle ultime elezioni un candidato si trovava ai domiciliari e un altro, il senatore Antonio D’Alì, in attesa di un’udienza che stabilisse se disporre la misura dell’obbligo di dimora chiesta dalla procura di Palermo. E sempre nel trapanese, a Castelvetrano, paese del super latitante Matteo Messina Denaro, il filo che lega grembiuli e mafiosi fa da sfondo al recente scioglimento per mafia del Municipio. «A Castelvetrano Messina Denaro ha costruito una rete di protezione nel ceto medio, nella borghesia cittadina. Non si tratta di omertà, attenzione. Ma di convenienza. La classe imprenditoriale ha trovato in Cosa nostra un partner ideale. E questo avviene anche altrove.
Siamo tornati alla mafia
poco appariscente e di sostanza del periodo pre-Corleonesi. Sconfitta l’ala
stragista, insomma, il mosaico ridotto in mille pezzi è stato ricomposto. Oggi
Cosa nostra e le altre organizzazioni sono tornate a essere parte integrante
del panorama. Con modi meno rozzi, ma con la stessa capacità di mettere tutti
d’accordo e seduti allo stesso tavolo». Poi Fava ricorda un’audizione in
Commissione antimafia. «I magistrati di Palermo avevano riscontrato che alcuni
imprenditori si erano recati dai mafiosi, non perché minacciati, ma per
stabilire un rapporto di reciproco vantaggio. La parola convenienza ha
soppiantato la parola omertà. Del resto le cosche rappresentano il socio
adeguato alla complessità di quest’epoca».
Complessità irriducibile al solo folklore delle organizzazioni mafiose. La mafia che ha vinto non è quella che celebra un funerale pacchiano con la musica del Padrino, la pioggia di petali di rosa e la carrozza con i cavalli per salutare l’ultimo patriarca. Non è neppure un anziano di 90 anni che ricorda i fasti del passato sotto un ulivo nella sua campagna in Calabria o in Sicilia. E non sono neppure i ragazzini armati fino ai denti che hanno seminato il panico per i vicoli di Napoli.
Per trovare oggi le mafie bisogna seguire i soldi. C’è un pentito che sta parlando con i magistrati di Reggio Calabria. Lui è un vecchio riciclatore di miliardi ricavati dai sequestri di persona. «Sa dottore» ha detto rivolgendosi al pm, «eravamo i migliori clienti di alcune banche internazionali, non è stato difficile per noi diventare soci». Ecco, dove sono i tesori dei clan? L’ultima grande sfida investigativa. Una pista che potrebbe portare lontano nel cuore di un’Europa per niente intimorita dai capitali delle cosche e priva di leggi adeguate per sradicare le succursali mafiose. Purché si evitino fastidi, clamori, sparatorie e violenza, nessun denaro è straniero nella grande e civile Unione.
Complessità irriducibile al solo folklore delle organizzazioni mafiose. La mafia che ha vinto non è quella che celebra un funerale pacchiano con la musica del Padrino, la pioggia di petali di rosa e la carrozza con i cavalli per salutare l’ultimo patriarca. Non è neppure un anziano di 90 anni che ricorda i fasti del passato sotto un ulivo nella sua campagna in Calabria o in Sicilia. E non sono neppure i ragazzini armati fino ai denti che hanno seminato il panico per i vicoli di Napoli.
Per trovare oggi le mafie bisogna seguire i soldi. C’è un pentito che sta parlando con i magistrati di Reggio Calabria. Lui è un vecchio riciclatore di miliardi ricavati dai sequestri di persona. «Sa dottore» ha detto rivolgendosi al pm, «eravamo i migliori clienti di alcune banche internazionali, non è stato difficile per noi diventare soci». Ecco, dove sono i tesori dei clan? L’ultima grande sfida investigativa. Una pista che potrebbe portare lontano nel cuore di un’Europa per niente intimorita dai capitali delle cosche e priva di leggi adeguate per sradicare le succursali mafiose. Purché si evitino fastidi, clamori, sparatorie e violenza, nessun denaro è straniero nella grande e civile Unione.
L’Espresso,
24 luglio
2017
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