Frank Capra a Bisacquino nel 1977 |
GIANNI BONINA
Gli zii d’America / Frank Capra. I concittadini gli rimproveravano di avere rinnegato le origini e lo
trattarono sempre con diffidenza. Il viaggio segreto per rivedere la casa
natale e la donna misteriosa della sua infanzia
A 80 ANNI meno un mese e dieci giorni Frank Capra tornò a Bisacquino,
14 anni dopo il suo viaggio a Roma dove si era fatto intervistare
contraddicendosi bellamente. Prima aveva detto «Ho una moglie inglese che non
cucina italiano e perciò devo cambiare moglie» e poi «La differenza tra il
cinema americano e quello italiano è che in America facciamo più soldi»:
dichiarandosi da un lato legato all’Italia e da un altro decisamente americano,
motivo per cui a Bisacquino non avevano gradito che, trovandosi a Roma, non avesse
pensato di rivedere il suo piccolo paese.
Ma quando nel 1977 il sindaco Gino Russo ne annunciò l’arrivo ufficiale,
anche quanti pensarono di ignorarlo addirittura, perché niente aveva mai fatto
per loro, parteciparono festosi alla trionfale accoglienza. Tuttavia ancora
oggi Frank Capra non è ricordato, soprattutto dalle generazioni adulte, con il
trasporto portato per esempio all’ingegnere Giuseppe Genovese, che in America
divenne pure direttore di un grande giornale e a Bisacquino finanziò la
biblioteca comunale; oppure a don Vito Cascio Ferro, il fondatore della Mano
nera, ma anche il sindacalista, il promotore dei Fasci, il galantuomo e il
benefattore, che al Circolo dei civili (dove l’assassino di Joe Petrosino entrò
con l’asino dopo il no alla sua iscrizione) vanta una mostra permanente. Ad
allestirla è stato Totuccio Salvaggio, il funzionario comunale che -
congiungendo gli opposti nel segno di una bisacquinità tesa audacemente a
rovesciare i canoni - è artefice anche del Museo civico nel quale a Capra sono
riservate tre stanze di cimeli da lui raccolti negli anni.
La verità è che in cuor suo Capra voleva tenere le distanze da certi
parenti in odore di mafia, tutti di parte materna, e in particolare dallo zio
Francesco Troncale, uno degli imputati di Catanzaro, come da altri zii finiti
nelle retate del prefetto Mori.
E se nel 1977 accettò di venire a Bisacquino fu perché il governo Carter,
promuovendo il “sogno americano”, scelse lui per sedurre l’Italia e fissò la
tappa iniziale del tour nel paese natale in occasione dei suoi 80 anni.
Funzionari dell’Usis (addetti del consolato nei quali furono sospettati
agenti dei Servizi) presero contatto con il sindaco ma dovettero trattare con
la Proloco perché il Comune non intese impegnare una lira, ufficializzando così
un risentimento che nel 1997, per il centenario della nascita, il
Consiglio avrebbe rinfocolato bocciando uno stanziamento di 80 milioni.
Ma anche il presidente della Proloco Vincenzo Alesci, messo che fu a
raccogliere fondi, dovette prendere atto della realtà. «Mi dicevano di
lasciarlo perdere perché era un mezzo mafioso, ma non era vero» dice oggi a 87
anni. Il sindaco Tommaso Di Giorgio conferma: «Capra non era mafioso, però
aveva parenti che lo erano e se ne vergognava. Tuttavia era legato al paese.
Quando vinse uno degli Oscar disse che veniva da un villaggio della Sicilia
chiamato Bisacquino e so pure che voleva comprare casa offendendosi pure perché
i parenti che incaricò non fecero nulla. Posseggo inoltre due lettere che non
lasciano dubbi: una a un orologiaio, al quale scrive di ricordare il rintocco
dell’orologio del campanile, e un’altra a una nipote con cui si lamenta di
quanto la stampa ha scritto della sua visita del 29 aprile». Dell’affetto di
Capra per Bisacquino c’è anche traccia nella sua autobiografia di 550
pagine, Il nome sopra il titolo, dove rivela di esserci stato in incognito, una
volta in pensione, e di essere rimasto in macchina a guardare la sua casa.
Nel 1977 volle però ostentarsi. Dal balcone del municipio Alesci declamò il
suo discorso, quindi il regista, scattando foto a tutti e dicendo di non
ricordare nessuno, si proclamò orgoglioso e felice, sennonché in casa del
nipote, che per ospitarlo a pranzo con tutta la parentela aveva abbattuto
un muro divisorio, non prese nemmeno un bicchierino né toccò un grissino,
perché gli accompagnatori, responsabili della sua incolumità, gli avevano
ingiunto di non assaggiare niente.
Accampando una indisposizione di stomaco, restò perciò digiuno, quantunque
fosse in casa del nipote più amato tra gli oltre quaranta che contava, l’unico
al quale aveva persino mandato denaro per convincerlo a venire in America. «È
vero, fu una visita di carattere politico - ammette il sindaco - peraltro
sotto stretto controllo». Alesci ricorda che quando Capra chiedeva di bere
c’era chi sorseggiava prima l’acqua. «Precauzioni, trattandosi di una
personalità - spiega. - Consideri che allora lo spauracchio erano i comunisti e
che per il mio discorso mi fu raccomandato di non parlare della sinistra». Pare
invece che il discorso gli fu scritto dal consolato Usa e che, avendo voluto
aggiungere qualche parola di suo, irritò non poco i misteriosi forestieri alle
sue spalle. Dopo aver reso visita alla miracolosa Madonna del Balzo, Capra
volle inaspettatamente andare in casa di una donna di nome Lucia con la quale
si trattenne da solo per quaranta minuti.
Era la bambina che nell’autobiografia citerà tra i ricordi d’infanzia
assieme a un cortile e alla sporcizia. Poi ripartì per Palermo e negli altri 14
anni di vita che gli rimasero si dimenticò nuovamente di Bisacquino. Buona
parte del paese vorrebbe a sua volta dimenticarsi di lui e c’è chi non gradisce
che gli sia stata intitolata una strada: quella che, sceso da un’antiquata
limousine nera all’ingresso del paese, Capra percorse a piedi con il codazzo e
la banda musicale appresso, in una delle sue giacche chiare a quadri che non si
potevano guardare, pantaloni bianchi e un pullover a dolcevita, già così stanco
che quando il corteo raggiunse il municipio, lo fecero riposare nella stanza di
Salvaggio che nel rivolgergli deferente la parola fu conquistato per sempre dal
suo fascino. «Poteva darsi delle arie - ricorda - e invece fu di una
umiltà che mi colpì. Parlammo in dialetto e sentii che diceva tumazzu e
chiumazzu per dire formaggio e cuscino. Mi apparve molto più siciliano di me e
se uno non sapeva chi fosse poteva scambiarlo per un compaesano di Piazza
Triona».
Superato il Calvario, Via Frank Capra arriva in Via Santo Cono dove al
numero 18 nacque il più sentimentale dei registi. La casa è proprietà privata
perché il Comune non è andato oltre la posa di un cartello segnaletico né ha
mai pensato di acquisirla. Nel 1897 era l’ultima della zona alta del paese
sotto Monte Triona, a mezza costa del quale sorge il santuario la devozione
verso il quale papà Salvatore, la moglie, il piccolo Francesco e altri tre
figli portarono oltreoceano dopo che arrivò la lettera di Ben.
Benedetto, il primogenito, era partito da cinque anni senza dire niente a
nessuno. Andato una mattina a pascolare le pecore, lasciò il gregge e
scomparve. Dopo aver fatto il mozzo sulle navi, cento mestieri e pure il
raccoglitore a Cuba, arrivò in California e sentì tanto la mancanza della
famiglia lasciata nella miseria e nella convinzione che fosse morto da scrivere
di raggiungerlo tutti quanti.
Il padre si fece leggere la lettera dal parroco della matrice e tornò a
casa con la luce negli occhi. La stessa luce abbaglierà anche il piccolo Cicciù
sul “Germania”, il piroscafo preso, secondo notizie mai accertate, anche da
Cascio Ferro che a New York avrebbe diviso la strada con il compaesano
destinato a conoscere gangster non con il mitra ma con la mela in mano e che
per otto giorni insieme con la famiglia, prima di arrivare a Los Angeles,
avrebbe mangiato solo banane perché “banana” in inglese si dice come in
siciliano.
La Repubblica Palermo, 9 luglio 2017
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