L'intervento di Carmelo Carbone |
In una lunga intervista a MeridioNews lo scrittore Carmelo Carbone
ricorda la figura del questore di origini giarresi, «integerrimo servitore
dello Stato che arrestò il boss di Cosa nostra Luciano Liggio». Il volume, che
raccoglie alcuni tra gli aneddoti più importanti della vita del funzionario, è
stato presentato il 30 giugno a Giarre, alla presenza di un folto pubblico. Era presente anche il figlio del questore, Angelo Mangano Jr.
«Impavido, onesto e probo servitore dello Stato». Non ha dubbi Carmelo
Carbone, autore di Angelo
Mangano, un
poliziotto scomodo, che sarà presentato venerdì 30
giugno a Giarre, nella sala Messina, quando
ricorda la figura del suo conterraneo. Nato nel 1920 Mangano è stato commissario di pubblica
sicurezza, questore e membro dell’ufficio affari riservati del Ministero
dell'interno, prestando servizio in diverse
città del nord Italia, prima di essere inviato in Sicilia, nel 1963, a seguito della strage di
Ciaculli, un attentato di matrice mafiosa in cui
persero la vita quattro uomini dell'Arma dei
carabinieri, due dell'Esercito Italiano e un
sottufficiale del Corpo delle Guardie dell’attuale Polizia di Stato.
Ad appena
un mese dal suo insediamento a Corleone, Mangano cattura Totò
Riina e l’anno successivo diventa
protagonista dell’arresto dellaprimula
rossa di cosa
nostra, Luciano Liggio. «Pur avendo letto molti libri su mafia e antimafia, fino a quattro anni fa non
conoscevo la figura di Mangano - racconta Carbone -. L’ho scoperto per caso,
nella bottega di un rigattiere, quando ho trovato una copia libro di Giuseppe Fava Processo alla Sicilia. Il giornalista catanese, durante una delle sue inchieste,
incontrò Mangano a Palermo, quando era vicequestore».
Una coincidenza che ha spinto Carmelo Carbone a documentarsi su
una figura di spicco delle forze dell’ordine
italiane, molto discussa in vita e dimenticata dopo la sua morte. Atti della commissione
Antimafia, documenti e foto fedelmente riportati nel volume, che segna l’inizio del suo
cammino da scrittore, con l’intento di conoscere i fatti e giudicare. «Sono riuscito a stendere questo
libro con grande fatica - aggiunge Carbone - perché le fonti erano davvero ristrette. Ho
sentito comunque l’esigenza di andare
avanti perché, man mano che studiavo, mi
rendevo conto che Mangano fosse una persona
integerrima, tutta d’un pezzo e che, per quei
tempi, aveva fatto cose straordinarie». Dopo aver prestato servizio a Corleone, a metà degli anni Sessanta a
Mangano viene affidata la direzione del centro di
coordinamento regionale di Polizia criminale, con il compito di coordinare l’azione dei vari organi di polizia.
Un incarico che gli permise di riaprire, tra i tanti, il caso del giornalista
di Termini Imerese Cosimo Cristina, trovato
morto, sei anni prima, in circostanze
misteriose. «È una storia che, per le tante
anomalie
del caso, ricorda quella di Peppino
Impastato -prosegue Carbone -. Cosimo
Cristina fu ucciso a soli venticinque
anni e i carabinieri cassarono
l’episodio come suicidio. Mangano riaprì il caso perché aveva capito che si trattava di un
delitto di stampo mafioso, in quanto il giornalista stava conducendo
un’inchiesta sull’omicidio del pregiudicato Agostino
Tripi». «Oggi - aggiunge Carbone -Cosimo
Cristina è universalmente riconosciuto come il primo giornalista a essere
stato ucciso dalla mafia e il suo nome compare nella lista, redatta dall’ordine dei giornalisti, dei
martiri assassinati dalla mafia».
Il tavolo della presidenza |
Un’attività investigativa e un impegno che, in pochi anni, avevano
condotto all’arresto dei vertici di cosa nostra, prima che i giudici di Catanzaro e Bari, con due sentenze emesse tra
il 1968 e il 1969, rimettessero in libertà quasi tutti gli imputati, tra i
quali Luciano Liggio. «Quando assolsero i sessantaquattro
imputati, Mangano chiese il trasferimento a Roma e,
secondo alcune testimonianze che mi sono state riferite, non volle più occuparsi di mafia. Insieme
al giudice istruttore Cesare Terranova, aveva raccolto prove e testimonianze
schiaccianti, lavorando in maniera scrupolosa. Al processo testimoniò in
favore dell’accusa e fu presente in tre sedute.
Dopo quelle sentenze, in cui si trova anche una dura reprimenda
rivolta alle autorità di polizia giudiziaria, accusate di trascuratezza e
superficialità, Mangano perse la fiducia in quelle istituzioni». Smantellato il
nucleo anticrimine, Mangano fu trasferito in Sardegna e successivamente, nel
1971, promosso questore a Roma, dove continuò la sua attività investigativa, sfociata nel
cosiddetto scandalo Rimi, in cui furono coinvolti anche diversi magistrati. Continuò a
indagare anche sulle attività di Luciano Liggio, dopo aver scoperto che uno dei
suoi uomini, il boss Frank Coppola, si trovava nelle vicinanze di Roma. Un’indagine che spinse
Coppola ad assumere dei sicari per eliminare Mangano. La sera del cinque aprile del 1973 il
questore viene raggiunto da cinque colpi di
pistola.
L'intervento del figlio del questore, Angelo Mangano J. |
«Mangano uscì miracolosamente vivo da quell’attentato - spiega Carbone - grazie alla sua stazza, non comune, e alla capacità che
ebbe nel deviare, con la mano destra, un colpo di pistola indirizzato alla fronte. Alcuni organi di stampa, subdolamente,
insinuarono che lui stesso avesse organizzato
l’attentato. Un’accusa che ricorda il fallito
attentato all’Addaura ai danni del giudice Falcone. Sarà poi il pentito Antonino Calderone, che è
stato ritenuto attendibile dalla magistratura, a svelare le modalità e gli esecutori
dell’attentato, tra i quali c’era anche Luciano Liggio, che voleva vendicarsi
dell’arresto a Corleone, nel 1964».«Con questo libro - aggiunge - ho
voluto raccontare l’uomo, la sua storia, il suo tempo e il suo esempio di onestà e rettitudine morale. Una
figura scomoda fatta cadere artatamente nel dimenticatoio. Ancora oggi - conclude l’autore - nella stessa
Giarre, Mangano è un personaggio quasi
sconosciuto e in tutta Italia non ci sono vie o
piazze intitolate a questo fedele servitore dello Stato».
Meridionews, 29/6/2017
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