Da sx: Francesca Morvillo e Giovanni Falcone |
PIERGIORGIO MOROSINI*
1. «Non c’è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il
Csm, l’Anm, il guardasigilli, i partiti. Cosa Nostra delinque senza soste,
mentre noi litighiamo senza soste». A quattro giorni dalla strage di Capaci,
Giovanni Falcone affida ad un giornalista partenopeo parole drammatiche e
premonitrici. Lo fa a commento dei segnali di ferocia mafiosa che si andavano
intensificando nella primavera del 1992. Segnali che in Sicilia si erano già
materializzati negli omicidi eccellenti del parlamentare Salvo Lima e del
maresciallo Guazzelli, dando l’avvio ad una stagione di attentati che rendeva
ancor più convulsa la delicata transizione politico-istituzionale del nostro
Paese. È questo uno dei
passaggi chiave dell’ultimo libro di Giovanni Bianconi, L’assedio. Troppi
nemici per Giovanni Falcone (Einaudi, 2017).
Un
racconto incalzante sull’ultimo anno di vita del magistrato, frutto di una puntigliosa
ricerca di fonti e della peculiare sensibilità della penna del Corriere
della sera su crimine organizzato, trame eversive e proiezioni
giudiziarie. Che, quindi, offre spunti di riflessione anche su pagine ancora
oscure della “Prima Repubblica” e sul ruolo della mafia nel tempo della
transizione, dopo la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda.
La tela narrativa
viene imbastita su due scenari che, idealmente, finiscono per intrecciarsi.
Quello dei covi mafiosi, con Riina e compagni alla ricerca di nuove alleanze
per l’impunità e alle prese coi progetti di vendetta a cavallo della decisione
della cassazione sul “maxi-uno”. Quello istituzionale del palazzo di via
Arenula, sede del Ministero della giustizia, con il magistrato siciliano determinato
a condurre in porto il progetto di una legislazione più efficace nel contrasto
ai clan.
Sul primo scenario
Bianconi compendia una miriade di sentenze e ordinanze molte delle quali,
naturalmente, successive al 1992. Sul secondo, la trama è dettata soprattutto
dalle parole di Falcone tratte dagli atti giudiziari a sua firma, dalle
audizioni davanti al Csm, dalle interviste, dagli editoriali su quotidiani
nazionali, dagli interventi nei convegni e nei dibattiti pubblici, anche
televisivi. E si completa coi ricordi delle persone che hanno lavorato al suo
fianco; oltre che con le dispute con altri magistrati, con esponenti della
politica e con osservatori di vario genere.
Tante le chiavi di
lettura de L’assedio. Difficile riassumerle in poche righe. Il
contributo di Falcone nei processi a Cosa Nostra; le alleanze nell’ombra tra i
clan e segmenti deviati delle istituzioni e del circuito economico finanziario;
le idee del giudice sulle strategie antimafia e le divergenze con altri
magistrati; l’impegno al Ministero di grazia e giustizia; il rapporto complesso
con il Consiglio superiore e con le componenti della magistratura associata.
I progetti, le
delusioni, i ritagli di vita personale, le speranze e le ansie sono ben
descritti nel libro. E ci consegnano un ritratto genuino, di per sé
difficilmente strumentalizzabile. Bianconi ha, dunque, il merito di averci
consegnato un lavoro lontano da quelle biografie interessate che hanno tirato
Falcone da una parte e dall’altra, facendogli dire ciò che non aveva mai
pensato, con operazioni che qualcuno ha definito da “sottrazione di cadavere”.
2. Anche negli anni
1991 e 1992, per Cosa Nostra, Giovanni Falcone resta il “nemico numero uno”.
Non per quello che aveva detto ma per ciò che aveva fatto da giudice
istruttore. Ci sono capitoli de L’assedio dedicati ai
preparativi dell’agguato, iniziati mesi prima di Capaci, con l’invio di una
pattuglia di sei mafiosi nella capitale.
Riina e i suoi
accoliti non gli avevano mai perdonato di essere stato l’artefice principale
del “maxi-uno”. Per loro quel giudice era una ossessione. Ricordavano che,
nonostante minacce e ostacoli interni al suo mondo, non si era mai rassegnato
all’isolamento e al vittimismo. Che, anzi, aveva avuto la forza, assieme ad
altri, di non farsi deprimere da un ambiente giudiziario privo, diversamente da
oggi, di ogni sostegno nella società civile; e di promuovere nuove strategie
processuali, dopo decenni di piena immunità per i boss mafiosi. Insomma lo
temevano tremendamente come giudice. E lo temevano anche per quello che stava
facendo al Ministero della giustizia, dove era riuscito a convincere la
politica a promuovere una legislazione ancor più incisiva nel contrasto alla
criminalità mafiosa.
Avevano già provato ad
eliminarlo, senza riuscirvi, nel giugno del 1989 con il tritolo dell’Addaura. E
mentre si scatenavano feroci ironie sulla “messa in scena”, Falcone richiamò
l’attenzione sulle «menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni
della mafia». E aggiunse: «Le importanti indagini da me condotte in relazione a
un grosso riciclaggio proveniente dal traffico di stupefacenti, si riferiscono
a una vicenda giudiziaria che vede imputate numerosissime persone di grosso
spessore mafioso e da cui potrebbero emergere anche conseguenze e implicazioni
di natura istituzionale, così in Italia come all’estero».
Il racconto di
Bianconi fornisce numerosi elementi sugli scenari inquietanti che quelle
espressioni lasciano intravvedere, ossia le relazioni istituzionali di Cosa
Nostra e le talpe a disposizione dei mafiosi. Nel descrivere il clima torbido
attorno al giudice, si sofferma sulle “convergenze” tra la galassia corleonese
e altre organizzazioni come la ‘ndrangheta, e sulle relazioni tra mondo criminale,
segmenti deviati dei servizi di sicurezza, logge massoniche coperte, frange
eversive e gruppi indipendentisti. “Convergenze” che paiono l’incubatrice di
forme di violenza politica o strumento per condizionare le istituzioni.
Certi contatti parrebbero
riproporsi proprio dopo l’esito in cassazione del primo maxiprocesso, nel
gennaio del 1992. Una sentenza che, secondo le parole di capi-mafia divenuti
collaboratori di giustizia (Giovanni Brusca, Antonino Giuffrè e Leonardo
Messina), Riina e i suoi alla fine interpretano come una sorta di “occasione”
per aprire una nuova stagione di violenza. Con l’obiettivo non solo di chiudere
i conti con chi veniva ritenuto responsabile della débâcle giudiziaria
della associazione, ma anche di intimidire lo Stato per ottenere trattamenti di
favore (sul piano della giustizia penale e del trattamento penitenziario),
unitamente a nuove chances di allargamento del giro di affari e nuovi contatti
con ambienti politici.
Gli attentati che
avranno luogo a partire dall’omicidio di Salvo Lima contribuiranno ad aggravare
un clima istituzionale già fortemente instabile per via anche delle iniziative
della magistratura milanese sul fronte anticorruzione con l’inchiesta
denominata “Tangentopoli”.
Tante ombre ancora
avvolgono quella stagione. L’autore non intende accreditare tesi
preconfezionate per diradarle. Né ammiccare a questa o quella chiave di
lettura. Semmai dal volume di Bianconi si intuisce che la eventuale
ricostruzione giudiziaria dei “pezzi mancanti” richiederebbe l’equilibrio, la
determinazione e la professionalità che il Falcone magistrato ci ha lasciato in
dote.
3. Le pagine de L’assedio descrivono
le esperienze salienti del Falcone magistrato. La sua tenacia nel costruire
piattaforme accusatorie solide, con la valorizzazione dei collaboratori di
giustizia, gli accertamenti patrimoniali, la cooperazione con le autorità
straniere. E le sue convinzioni sulla importanza del lavoro investigativo di
équipe tra magistrati e polizia giudiziaria.
In effetti, il giudice
siciliano è stato uno dei grandi promotori di un sistema investigativo
attrezzato in modo specifico. Quel sistema lo aveva sperimentato per la prima
volta grazie alla felice intuizione dell’allora capo dell’ufficio istruzione
Rocco Chinnici, che all’inizio degli anni ottanta creò il pool antimafia.
Davanti al Comitato
antimafia del Consiglio superiore della magistratura, Falcone ebbe modo di
indicare un percorso metodologico, e per certi versi deontologico, per chi si
occupa di indagini e processi di criminalità organizzata, dichiarando: «Di
fronte alla attività di contrasto così complessa non ci può essere spazio per
le gelosie o diversità di vedute tra le forze di polizia o magistrati di
diversi uffici. Se non ci si rende che è necessario un armonioso e coordinato
svolgimento di tutte le indagini verso una direzione predeterminata e accettata
da tutti, non potranno giungere risultati significativi».
Secondo il pensiero
falconiano è fisiologico che, negli uffici e nella attività professionale, i
magistrati si confrontino tra loro e, se del caso, si dividano su questioni di
fondo. Seguendo la filosofia del pool, con una sana dialettica, le divergenze
possono evolvere in analisi più complete e, quindi, contribuire a calibrare
indagini e processi nei confronti di associazioni criminali che fanno della
rigorosa organizzazione il loro punto di forza e la loro risorsa principale.
Eppure, come
ricostruisce Bianconi, quelle intuizioni, che successivamente verranno
valorizzate con l’istituzione della direzione nazionale e delle direzioni
distrettuali antimafia, furono motivo, o più spesso il pretesto, di una
strisciante ostilità che contribuì all’isolamento di Giovanni Falcone.
4. A metterlo in
discussione, furono esponenti politici di diversa estrazione partitica, a
seconda del momento, e certe campagne di stampa. Come evidenzia Bianconi, tra
le invettive più insidiose vi era quella che gli attribuiva l’etichetta di
“giudice protagonista” per i rapporti con i media, cercando di eroderne la
credibilità.
Ma gli attacchi più
dolorosi sono ascrivibili ai suoi colleghi. Nel “suo mondo” venne contrastato
in modo trasversale, da magistrati di diversa estrazione culturale e
collocazione associativa. Certe ostilità si manifestarono soprattutto nei
momenti chiave del percorso istituzionale del giudice e nei suoi rapporti con
il Csm. Non solo la mancata nomina a capo dell’ufficio istruzione del tribunale
di Palermo, a vantaggio di un magistrato, Antonino Meli, che non condividerà
quell’approccio aggiornato all’azione antimafia. Ma anche: la mancata elezione
al Csm a seguito della candidatura nel gruppo che aveva contribuito a fondare;
la convocazione innanzi alla Prima Commissione del Csm per contestargli di
avere lasciato le “carte nei cassetti” nelle indagini su alcuni omicidi
eccellenti, tra cui quello dell’allora presidente della regione Piersanti
Mattarella; l’ostruzionismo patito per la partecipazione al concorso per la
nomina a procuratore nazionale antimafia.
A sua volta Giovanni
Falcone non risparmiò dure critiche all’organo che governa la vita
professionale dei magistrati. Non si fece scrupoli a definirlo come «organo
verticistico e corporativo, cinghia di trasmissione di decisioni prese
altrove». E manifestò in più occasioni la sensazione di trovarsi dinanzi ad una
struttura utile non tanto a garantire l’autonomia e l’indipendenza del
magistrato, quanto a esercitare un controllo esterno da cui era opportuno
guardarsi.
Bianconi ci consegna
un mosaico di dichiarazioni e prese di posizione dei colleghi di Falcone, senza
formulare giudizi. Sta al lettore fare le sue considerazioni. Distinguere tra
punti di vista argomentati e invettive biecamente strumentali o dettate da
miserabili invidie, che mettevano in discussione la professionalità e la lealtà
istituzionale dell’uomo. Molte accuse traevano suggestione dall’incarico di
stretta collaborazione con il Guardasigilli, in veste di direttore degli Affari
penali del Ministero di grazia e giustizia. Altre dalla proposta di istituire
delle «superstrutture giudiziarie antimafia», poi fatta propria dal ministro,
ritenuta funzionale alla creazione di nuovi centri di potere, facilmente
condizionabili dalla politica.
In tanti mostrarono
preoccupazioni per il fatto che quello potesse essere il primo passo verso la
subordinazione delle indagini e dei pubblici ministeri ai voleri del governo.
Sono questioni che ciclicamente tornano all’ordine al giorno. Anche ai tempi
nostri accade, ogni qual volta vengono formulate proposte di riforma
dell’ordinamento giudiziario e del processo penale. A dimostrazione di un
equilibrio molto delicato tra i diversi poteri dello Stato.
5. Venticinque anni
ci dividono da quel maledetto 23 maggio. Viviamo in una Italia diversa.
Economia, istituzioni, ruolo internazionale e la stessa società civile hanno un
altro volto. Eppure i “segni” della vita di Giovanni Falcone non possono
cristallizzarsi in un passato lontano. La sua “storia” è gravida di messaggi e
di lezioni per gli uomini delle istituzioni di oggi. E d’altro canto, lo stesso
epilogo del percorso professionale e umano del giudice siciliano propone
questioni attuali: dalle ragioni della violenza mafiosa alle sue alleanze
nell’ombra, dal suo peso nella società alla credibilità e alla efficacia della
risposta giudiziaria. Tutti aspetti che chiamano in causa la qualità della
nostra democrazia.
Leggendo il libro di
Bianconi, è soprattutto la magistratura di oggi che non può dimenticare, di
Falcone, la «lucidità di immaginare il futuro». Le sue intuizioni sono alla
base di leggi ancora preziose nel contrasto ad ogni forma di crimine
organizzato. Ne sono prova tangibile le direzioni distrettuali e la procura
nazionale antimafia e antiterrorismo, nonché le norme sui collaboratori di
giustizia.
Nella “eclissi” della
prima Repubblica, ebbe il coraggio anche di ripensare al ruolo della
magistratura nel sistema istituzionale. Lo fece dialogando da pari a pari con
la politica e affrontando non solo le critiche argomentate ma anche gli
ostracismi e le invettive dei suoi colleghi. Non tutte le indicazioni di
Falcone, ovviamente, erano condivisibili. Ma del suo pensiero oggi non possiamo
non apprezzare l’approccio pragmatico e la passione intellettuale.
Come allora infatti la
nostra epoca è gravida di cambiamenti. Sono in corso profonde trasformazioni
nel rapporto tra istituzioni e società. E la giustizia è al centro di tensioni
continue. Giudici e pubblici ministeri, non di rado rimproverati di
protagonismo e di “invadere” il campo della politica e della economia, si
misurano con problemi incancrenitisi per le inerzie di altre istituzioni. Vista
la delicatezza delle sfide da affrontare, la magistratura deve “guardarsi
dentro” con lo stesso coraggio che ebbe il giudice siciliano. E “ripensarsi”
per attuare un “salto di qualità” su formazione, verifiche professionali,
selezione di chi dirige gli uffici, prevenzione e repressione delle opacità
interne.
Con la sua
testimonianza, Falcone, dimostrò l’importanza, in una società esigente e
complessa, del magistrato dotato di forte senso della realtà, disponibilità a
lavorare in équipe, equilibrio e, soprattutto senso della libertà. Che poi sono
le qualità che giustificano la sua soggezione soltanto alla legge. Come afferma
la Costituzione.
*Componente del
Consiglio superiore della magistratura
Liberainformazione, 28 maggio 2017
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