SARA SCARAFIA
Eletto al primo turno e per la quinta volta: “La città chiude un cerchio,
da capitale della mafia a capitale dell’inclusione”. Ho la visione di ciò che ci sarà dopo la fine del mio mandato, ma nessuno
mi chieda di scegliere un delfino
PALERMO - Alle 8 del mattino, l’abito scuro gualcito, gli occhi rossi di chi non ha
dormito, l’eterno sindaco di Palermo attraversa la hall ormai vuota dell’hotel
del centro trasformato in comitato per la lunga notte elettorale. Il portiere
gli porge la mano e si complimenta. «Sindaco, ma come ha fatto a essere eletto
al primo turno?». Leoluca Orlando sorride e risponde in tedesco, poi traduce:
«Sono stato prima figlio della città, poi fratello e infine padre ». Il “papà”
di Palermo a 69 anni è stato eletto sindaco per la quinta volta con oltre il 46
per cento dei consensi. La prima volta fu nel 1985, la seconda in quel 1993
schizzato dal sangue delle stragi. E poi ancora nel ‘97 e nel 2012. Ieri il suo
primo appuntamento da nuovo sindaco è stato al porto di Palermo, dove è
attraccata una nave con 724 migranti a bordo.
Orlando, le rimproverano di essere il «vecchio che torna». Perché si è ricandidato?
«Ho una missione: voglio completare un percorso di normalità. Negli anni
Ottanta fui costretto a impegnarmi in politica con la morte di Piersanti
Mattarella: non potevo permettere che Piersanti morisse di nuovo. Allora ero un
giovane professore. Oggi sono rimasto uno dei pochi che non hanno incontrato
mai Vito Ciancimino, nemmeno in ascensore o sul bus. La mia candidatura vuole
chiudere un cerchio: portare Palermo da capitale della mafia a capitale
dell’accoglienza dei migranti e della cultura come sarà nel 2018. Ho percorso
45 chilometri me ne mancano 55 per arrivare a 100. Stavolta non ho alibi. Se
uno come me non dà un contributo al cambio culturale della città allora ha
sprecato tempo».
Prima i sondaggi poi gli exit-poll la davano tra il 39 e il 41 per cento:
ha temuto il ballottaggio?
«Se avessi cominciato la mia campagna elettorale cinque giorni dopo avrei
rischiato di perdere, se l’avessi cominciata cinque giorni prima anche. Ho con
questa città un rapporto fisico. Quando giro per i quartieri c’è sempre
chi vuole dirmi che qualcosa che non va, ma alla fine ammette di votarmi. C’è
un rapporto di fiducia tra me e la città».
La sua, ha detto, è un’esperienza di «civismo politico»: che cos’è?
«Era quello che a Torino avrebbe potuto e dovuto fare uno come Piero
Fassino se non fosse stato condizionato dall’appartenenza a un partito, è
quello che propone di fare Giuliano Pisapia che però ha ancora troppe categorie
politichesi, è quello che fa Pizzarotti a Parma, quello che fa a Barcellona Ada
Colau, quello che fa Macron in Francia. Qui a Palermo i partiti hanno compreso
che facendo un passo indietro rinunciando al simbolo avrebbero fatto un passo
avanti. Credo che il modello che abbiamo sperimentato sia esportabile sia
in Italia sia alla Regione: a patto che il candidato presidente sia una persona
credibile, capace di dire che il suo partito si chiama Sicilia».
Il suo avversario Fabrizio Ferrandelli, arrivato secondo, era sostenuto
anche da Forza Italia e da Cantiere Popolare, il partito che fa riferimento
all’ex governatore Salvatore Cuffaro condannato per favoreggiamento alla mafia.
La lista dei cuffariani non ha superato la soglia di sbarramento del 5 per
cento: che ne pensa?
«È il segno che Palermo è cambiata e che questo modo di fare politica non
paga più. Il tempo dei consensi, quello del cuffarismo, è finito. Questo è il
tempo del consenso».
E il flop del Movimento Cinque stelle?
«Ha perso appeal a livello locale. Perché a livello nazionale puoi
attaccarti al racconto dell’alternativa politica ma a livello locale devi
risolvere i problemi delle città che amministri».
Come mai a Palermo ha votato solo il 52.6 per cento degli aventi diritto?
«C’è una crisi di partecipazione profonda che segna una disaffezione nei
confronti della politica, ma ha toccato meno me: gli scontenti non si rivolgono
più nemmeno ai Cinque Stelle».
È il suo ultimo mandato: tra cinque anni chi sarà il suo successore?
«Io ho la visione di quello che ci sarà dopo di me ma non di chi: nessuno
mi chieda di scegliere un delfino».
La Repubblica, 13 giugno 2017
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