ATTILIO BOLZONI
Il boss. È il più famoso e anche il più sanguinario. Farlo tornare a Corleone
significherebbe aiutarlo a realizzare il sogno che ha dal giorno della cattura
È il sogno che ha sempre avuto: uscire dal carcere, tornare nella sua
Corleone. Dal giorno della cattura, avvenuta in misteriose circostanze il 15
gennaio del 1993, Totò Riina non ha pensato ad altro. Un’ossessione:
riacquistare in qualunque modo la libertà perduta quando era all’apice della
sua potenza. Anche lui, come ogni mafioso, ha sempre coltivato la speranza che
— prima o poi — lo Stato gli potesse fare uno sconto, un piccolo regalo in
virtù dei tanti segreti che porterà fino nella tomba. Una grazia. È arrivato
quel momento magico per quello che — ancora oggi — è formalmente il capo dei
capi di Cosa Nostra? Lo ripetiamo, a scanso di equivoci: al vertice della
Cupola, malato o non malato, c’è sempre lui. C’è sempre il contadino di vicolo
Scorsone che omicidio dopo omicidio e massacro dopo massacro ha conquistato la
Sicilia e ricattato l’Italia. C’è sempre uno che si fa ascoltare anche quando
sta zitto.
Quanto sarà aiutato da questa sentenza della Cassazione è ancora difficile
dirlo, anche se ragionevolmente il boss siciliano più famoso del mondo secondo
noi — e con tutto il rispetto per i convincimenti dei giudici della Suprema
Corte — passerà i suoi ultimi anni sempre dietro le sbarre e sempre isolato in
un braccio speciale.
Più che una svolta nella vicenda carceraria dello “zio Totò”, questo
pronunciamento della prima sezione penale è un segnale devastante che viene
lanciato a meno di due settimane dalle pompose celebrazioni del 23 maggio in
onore di Giovanni Falcone e a poco più di un mese dal venticinquesimo
anniversario dell’uccisione di Paolo Borsellino. I giudici del Tribunale di
Sorveglianza di Bologna dovranno decidere sul destino di Riina il prossimo 7
luglio, proprio alla vigilia della strage di via Mariano D’Amelio. Ma ve lo
immaginate, Totò Riina libero mentre si ricorda il giudice Borsellino saltato
in aria per mano sua?
C’è qualcosa di veramente indecifrabile nell’amministrazione della
giustizia del nostro Paese, quando la questione è la mafia e quando di mezzo ci
sono i mafiosi. Come si può rimettere in libertà l’uomo che ha dichiarato
guerra allo Stato per un quarto di secolo e ha abbattuto tutti gli uomini dello
Stato che si sono opposti ai suoi voleri e ai suoi piani? Per quello che ha
rappresentato e ancora rappresenta,Totò Riina a piede libero è come liberare
tutta la mafia, un perdono collettivo. Il messaggio che viene dalla Cassazione
va decisamente oltre i ricorsi della difesa o i cavilli o i tortuosi percorsi
che attraversano i codici. Rimettere fuori uno come Riina è una coltellata alle
spalle ai familiari delle centinaia, migliaia di vittime che il corleonese ha
reso tali. «Spegnilo», diceva ai suoi. E a turno, i suoi “canazzi da catena”
andavano e uccidevano.
Fermo il principio che anche lui deve avere garantita ogni cura e al meglio
sino all’ultimo respiro — come qualunque cittadino italiano libero o detenuto — sembra
davvero una provocazione scarcerare il più sanguinario dei mafiosi per il suo
«decadimento fisico» e per assicurargli «il diritto a morire dignitosamente».
Anche perché con il cervello lui c’è sempre. Un po’ affaticato ma sempre
lucido. Sempre in agguato.
Per provare a ragionare su questa sentenza e non cadere nella trappola
delle suggestioni ci sono due considerazioni da fare. La prima. Se davvero
Riina tornasse in libertà perché non più pericoloso o in grado di ordire trame
e ordinare delitti, come giustificheremmo per esempio quell’imponente apparato
di protezione intorno al pubblico ministero palermitano Nino Di Matteo, che da
più di un anno vive prigioniero proprio per le minacce di morte del boss di
Corleone, che va in giro con una scorta che non hanno nemmeno i presidenti
della Repubblica? Totò Riina libero per (presunta) incapacità di nuocere e
Nino Di Matteo ostaggio di cosa, di uno che non gli può torcere un capello?
Qualcosa non quadra. La seconda considerazione. Lo stato di salute di Riina —
che disteso su una barella non si perde un’udienza del processo sulla
trattativa Stato-mafia — non è paragonabile a quello di Bernardo Provenzano,
che negli ultimi mesi era alimentato con un sondino. Eppure anche la Corte
europea dei diritti dell’uomo, al tempo, ha dato ragione a chi — pure in quelle
condizioni — ha tenuto l’altro mafioso corleonese al 41 bis fino al giorno
della sua morte. Perché Provenzano, ormai ridotto a un vegetale, doveva stare
rinchiuso e Riina — meno malandato — può tornare libero?
Curatelo, curatelo bene. Ma dentro.
La Repubblica, 6
giugno 2017
Nessun commento:
Posta un commento