ENRICO BELLAVIA
Piero Melati ripercorre nel suo libro il calendario nero della Sicilia,
segnato da delitti e da personaggi oscuri. Raccontando le storture della
retorica e “i professionisti del garantismo”
Sarà forse perché continuiamo a crederci
il “sale della terra” ma la storia recente d’Italia sembra irrimediabilmente
annodata a quella della Sicilia. È un viluppo perverso come l’abbraccio della
vittima al proprio carnefice. Genera intrighi. E come in tutti gli imbrogli vai
poi a distinguere davvero chi è causa del male e chi ne patisce gli effetti.
Dove sta il torto e la ragione: se a Roma o a Palermo. Se a Torino o a Catania.
Della Sicilia come luogo estremo condannato al male e al lutto, alla dannazione
di una memoria intermittente, che non sparisce ma si appanna, che non oblia ma
genera maschere di verità per renderci meno oneroso il passato, che
guadagna nella finzione e nell’inganno della metamorfosi qualche passo lungo la
linea oscura, spacciandolo per futuro, racconta Piero Melati nel suo “Giorni di
mafia, dal 1950 a oggi”, editore Laterza. Un breviario per giorni scomodi, una
data e una preghiera laica all’altare dei fatti.
“Quando, chi, come”, annuncia il
sottotitolo del libro.
Ma con precisione chirurgica, dosando la
parola come bene prezioso, Melati incide la carne viva della realtà offrendoci
anche quel “perché” che il pudore di un cronista vecchio stampo non si
sente di dichiarare in premessa ma al lettore risulta promessa mantenuta.
Ne viene fuori la storia così com’è,
riferita nell’essenza del suo svolgimento, collocata nel contesto e illuminata
dalla lettura di uno sguardo d’esperienza ma con il necessario distacco di chi
osserva il mosaico e non le tessere.
Al mesto incedere delle ricorrenze, degli
anniversari per celebrare il ricordo dei morti ammazzati, Melati più che opporre,
affianca una cronologia di accadimenti non meno rilevanti ma lasciati in
soffitta dalla narrazione corrente. E offre una galleria di personaggi neri
sbiancati solo dalla polvere del tempo - l’avvocatissimo Vito Guarrasi, il
ministro Giovanni Gioia fino ai Vito Ciancimino, ai Salvo Lima ai Giulio
Andreotti - come di padri nobili la cui luce orienta negli angoli bui.
Si parte dalla morte di Salvatore Giuliano
e dalla madre di tutte le stragi, quella di Portella che consegnò la terra dei
siciliani alla maledizione dell’eterno compromesso per placare la fierezza di
un popolo che l’educazione politica aveva reso meno oppresso degli oppressi e
più consapevole degli istruiti. Si parte dal separatismo e dai sindacalisti
uccisi. Si passa per il milazzismo e il sacco di Palermo con l’idea dichiarata
che il mimetismo e lo scempio sono solo la premessa della contemporaneità.
Si arriva al tempo presente, ai
compromessi dell’oggi, siglati e sigillati anche quelli con il sangue rappreso
dei morti. Storie di viltà e di compiacenza quando non di connivenza e
convenienza. Che si prova a far passare per la stretta porta di un’aula di
tribunale o si preferisce annacquare nella trasfigurazione di fiction che
dicono senza spiegare, che pagano il tributo all’impegno con il soldo
facile dell’arte che non costa, del genio che non spiazza, dell’impronta labile
sulla sabbia slavata.
Ci si spinge fino a Mafia capitale, la
mega inchiesta sul patto criminale romano per dire che lì «la posta in gioco
non è un processo, ma il futuro. Come, in quali circostanze, a chi potrà essere
applicato il reato di 416 bis? Che cosa è mafia? E cosa non lo è?». Libro
appassionante per il dosaggio di cronaca e letteratura che si disvela qui per
quel che dovrebbe essere: la chiave d’accesso all’interpretazione. C’è Tomasi
di Lampedusa e c’è Sciascia ma ci sono Michele Pantaleone, Carlo Levi, Gesualdo
Bufalino, Vincenzo Consolo, Giuliana Saladino. Ma anche Truman Capote, Enzo
Sellerio, Francesco Rosi. E Francis Ford Coppola: «La mafia è una incredibile
metafora dell’America. Sono tutti e due fenomeni capitalistici spinti dal
profitto».
Come nella vita dell’autore si mischiano
passioni e conoscenze e le immagini hanno un peso, se ce l’hanno, anche in
questo correre in groppa alle date.
Per raccontare, ad esempio, la vera storia
di Raimondo Lanza come del “mostro” di Marsala. E denunciare le storture della
retorica dell’enfasi: «Antimafia come lasciapassare, protagonismi, eccessiva
credulità verso le procure, incapacità di misurarsi con validi argomenti con un
fenomeno parallelo allo sciasciano professionismo dell’antimafia, i
”professionisti del garantismo”. Nasce anche una sorta di ”comandamento del
dolore”: il rispetto per il sacrificio delle vittime viene a volte confuso in
assegnazione di un automatico ruolo di leadership ai parenti».
Ecco: “Giorni di mafia” sono i giorni
nostri, di chi c’era e di chi li ha avuti raccontati, riscattando il calendario
dall’idea rassegnata che il domani sia solo un oggi posticipato e ieri il
passato.
Un libro che paga il tributo ai Besozzi e
ai Nozza come ai Bocca, artigiani della scrittura, che il mestiere di
giornalisti ha portato all’incrocio con la grande storia.
E a Mario Francese ucciso dalla mafia e
dalla “cecità faziosa”.
Perché, come ricorda Melati, a questo serve
raccontarla. Perché come scrisse Bufalino in calce all’antologia “Cento
Sicilie”, citata nel libro, «oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e
Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla
fiducia più esangue. E tuttavia... finché in una biblioteca mani febbrili
sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in
un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora.
Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno
straccio di bandiera bianca».
La Repubblica, 3 giugno 2017
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