SALVO PALAZZOLO
Quarant’anni fa, a Palermo, dicevano che eravamo dei visionari, dei pazzi. Intitolare
il Centro siciliano di documentazione all’estremista Peppino Impastato, così
veniva liquidato anche dal Pci, ci mise contro anche i parenti, proprio come
era accaduto a Peppino per le sue scelte», ricorda Umberto Santino, il
fondatore del centro che oggi è un punto di riferimento a livello
internazionale per chi vuole capire cosa è stata e cosa è la mafia siciliana.
Il Centro Impastato compie quarant’anni. «Mai un euro di contributi pubblici»,
è l’orgoglio di quest’uomo che ha sempre difeso una certa idea di antimafia,
quella delle origini. “L’impegno contro il crimine organizzato è ricerca della
verità e lavoro sul territorio. Tutto il resto è solo passerella. Quando
decidemmo di dedicare il Centro a Impastato ci presero per pazzi, per
visionari, persino il Partito Comunista lo considerava un estremista. Per
questa scelta fummo isolati anche da alcuni parenti. Già tre giorni dopo il
delitto, presentammo un esposto in procura, scrivendo chiaramente che si
trattava di omicidio.
Uno dei magistrati che indagava seriamente sul caso fu il
consigliere istruttore Rocco Chinnici, diventammo presto amici, andavamo nelle
scuole per parlare di mafia, non era mai accaduto prima che un magistrato
avesse questa sensibilità. Grazie agli atti giudiziari che lui e Falcone hanno
donato al Centro è stato possibile elaborare paradigmi importanti per decifrare
le relazioni attorno al fenomeno mafia
L’antimafia deve cercare la verità e impegnarsi concretamente sul
territorio», dice Umberto Santino. «Tutto il resto, è solo passerella».
Come nacque l’idea di un centro di documentazione?
«Il Centro era parte di una cooperativa editoriale chiamata Centofiori, che
gestiva una libreria in una palazzina liberty di via Agrigento. Attorno a
quella esperienza si erano ritrovati alcuni militanti del Manifesto e di altre
organizzazioni a sinistra del Partito Comunista, che consideravano conclusa
l’esperienza politica e volevano iniziare a riflettere su alcune questioni, ma
al contempo impegnarsi concretamente. In quel periodo sostenevamo le lotte
per la casa».
Peppino aveva partecipato a qualche iniziativa del centro?
«Mi hanno detto che era al convegno per i trent’anni di Portella della
Ginestra. “Una strage per il centrismo”, la nostra prima iniziativa».
Quando fu chiaro che attorno al suo omicidio si stava costruendo un
depistaggio istituzionale?
«Già tre giorni dopo, il Centro e altre associazioni presentavano un
esposto in procura, scrivendo chiaramente che si trattava di omicidio. La
stessa mattina, partecipai a un’assemblea alla facoltà di Architettura, avevano
invitato il medico legale Ideale del Carpio, disse che le tracce di
esplosivo sotto al torace di Peppino erano un segnale evidente dell’omicidio e
della messinscena. Il pomeriggio, ero a Cinisi, per assistere al comizio di
chiusura di Democrazia Proletaria, avrebbe dovuto farlo Peppino quel comizio,
assieme a un rappresentante nazionale, Franco Calamida».
E, invece, parlò lei.
«Una compagna che avevo conosciuto durante la mia militanza in Avanguardia
Operaia, Maria Cuomo, mi disse che serviva un intervento più centrato sulle
questioni del territorio. Gli dissi subito: “Io posso parlare di mafia, ma i
compagni di Peppino mi devono dire cosa pensano”. E i compagni di Peppino
furono chiarissimi: a Cinisi comanda Gaetano Badalamenti. Chiarissimo fui
anche io nel mio intervento: “Noi indichiamo come mandanti della morte di
Peppino Impastato i mafiosi di Cinisi e Badalamenti”».
Quale fu la reazione del paese?
«Tutto attorno, le finestre erano chiuse. Rivolgendomi a chi stava dietro
ad ascoltare, perché ero sicuro che erano lì, dissi: “Voi sapete cosa ha fatto
Peppino, o vi svegliate o tutto il suo lavoro sarà stato inutile”. Conoscevo
quel lavoro fatto a Cinisi, ma non sapevo ancora che il padre di Peppino,
Luigi, era stato al confino perché indiziato mafioso; non sapevo che Cesare
Manzella, il capomafia del paese, era il cognato di Luigi».
Quando iniziò a conoscere la famiglia Impastato?
«Cinque giorni dopo il comizio, la madre e il fratello si costituiscono
parte civile. Inizia il rapporto con loro. Un mese dopo, presentiamo un dossier
che ripercorre tutta l’attività di Peppino attraverso le testimonianze dei
compagni. A quel punto era naturale intitolare il Centro a Giuseppe Impastato».
Negli ultimi 40 anni ha animato questo percorso culturale assieme a
un’altra figura simbolo del movimento antimafia palermitano, Anna Puglisi, che
è sua moglie. Come è iniziato il vostro percorso comune?
«Ci siamo conosciuti nel 1971, durante l’attività che il Manifesto faceva
allo Zen 1, per sostenere le famiglie di quel quartiere in costruzione dove non
c’era nulla, neanche l’acqua. Si cercava di regolarizzare la situazione degli
occupanti abusivi con lo l’istituto case popolari, altri volontari gestivano un
ambulatorio medico. Un anno dopo, ci siamo sposati».
In quegli anni difficili, chi sosteneva il Centro Impastato?
«Uno dei magistrati che indagava seriamente per trovare gli assassini di
Peppino era Rocco Chinnici, diventammo presto amici, andavamo in giro per le
scuole a parlare di mafia, non era mai accaduto prima che un magistrato avesse
questa sensibilità. Chinnici ha donato al centro tanti importanti atti importanti
giudiziari, diventati materia di studio. Falcone ci ha dato altri materiali».
Cosa è emerso in questi anni dalle tante ricerche fatte dal Centro
Impastato?
«Abbiamo sviluppato paradigmi che sono alla base della lettura del fenomeno
mafioso, perché ne spiegano l’essenza. La borghesia mafiosa, che indica il
sistema delle relazioni. L’intreccio fra continuità e innovazione, un altro
tratto distintivo dell’organizzazione mafiosa. L’estorsione come espressione
della signoria territoriale».
E dopo gli studi sulla mafia, anche la riflessione sull’antimafia.
«La mia Storia del movimento antimafia resta un studio unico perché mette
al centro l’antimafia sociale».
L’ultimo libro, la mafia dimenticata, pubblicato da Melampo, è ancora uno
sguardo al passato, per capire il presente.
«Ripercorrendo le indagini del questore Sangiorgi, alla fine dell’800, sono
emersi mafiosi che già allora decidevano di rompere il silenzio per collaborare
con la giustizia. Ma, soprattutto, sono emerse tante figure di siciliani che già
allora si ribellavano al pizzo e alle angherie della mafia».
La Repubblica Palermo, 7 maggio 2017
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