Il questore di Palermo Renato Cortese |
ALESSANDRA ZINITI
L’INTERVISTA / PARLA IL QUESTORE RENATO CORTESE
L’11 APRILE, questa volta da questore di Palermo, era di nuovo lì. Da
solo a guardare da lontano il luogo che ha segnato per sempre la sua vita da
“sbirro”, il casolare di Montagna dei cavalli dove, alle 11,20 dell’11 aprile
di 11 anni fa, si ritrovò finalmente faccia a faccia con l’uomo cui aveva dato
la caccia per otto anni. «Ero stato nominato questore da poco più di un mese,
mi sono fatto portare in assoluta solitudine su quella collina dove, insieme ai
colleghi della Catturandi, avevamo passato non so quanti giorni in attesa che
si muovesse qualcosa, e mi sembrava che il tempo non fosse passato».
Dopo essere stato nominato questore di Palermo, Renato Cortese, il
cacciatore di latitanti, è voluto tornare a Montagna dei cavalli, il luogo dove
arrestò Bernardo Provenzano. Era l’11 aprile del 2006 e in questi undici anni
che hanno visto il passo indietro di Cosa nostra, è cambiata anche Palermo.
«Mai visti tanti ragazzi per strada, tanti ristoranti, prima c’era il
coprifuoco. Oggi si balla alla Vucciria, la gente ha voglia di divertirsi, di
lavorare davvero: non so se questa voglia di non pensare più alla mafia sia un
bene o un male ma è anche il segno che la gente non è più condizionata dalla
mafia, non pensa alla mafia come un’opzione per il futuro». Il questore è
sicuro, l’11 aprile, data dell’arresto di Provenzano, è stato un punto di non
ritorno: «Prima, quando portavamo alla Mobile i latitanti catturati, ci
festeggiavano solo i poliziotti, i parenti degli arrestati dicevano che ce la
prendevamo coi loro figli e non con “Chiddu”. “Chiddu”, Provenzano, era il mito
dell’invincibilità. Quando lo abbiamo preso hanno festeggiato tutti».
Da quell’11 aprile 2006, in cui dopo 43 anni di latitanza, Renato Cortese
ha messo le manette ai polsi dell’inafferrabile capo di Cosa nostra, nonostante
l’immutabile fotografia di Montagna dei Cavalli, nulla è più come prima. E ora,
trascorsi 11 anni, dal suo nuovo “osservatorio” di questore di Palermo, Renato
Cortese fa un’analisi ragionata di come e perché l’arresto di Provenzano, dopo
le decine di altre catture di capimafia di prima grandezza e gregari susseguitisi
dal 1993, subito dopo la stagione delle stragi, abbia di fatto segnato la fine
di Cosa nostra.
È così?
«Ogni volta che tornavamo alla squadra mobile con in macchina un latitante
catturato, ad accoglierci con applausi c’erano solo poliziotti. I familiari
degli arrestati (che fossero latitanti ma anche indagati per reati di traffico
di stupefacenti o altro) ci gridavano sempre dietro: “Vi pigghiastivu a me
figlio, ma a chiddu un nu pigghiate mai”. E lo stesso sentivamo dire ogni
giorno andando al bar vicino la questura o in qualsiasi altro luogo della
città. “Chiddu”, Provenzano, era il mito dell’invincibilità di Cosa nostra,
ogni giorno che passava senza catturarlo era uno scacco in più per lo Stato.
Per questo l’11 aprile ha segnato un punto di non ritorno, e per questo quella
mattina sotto la squadra mobile a salutare l’arresto del capo di Cosa nostra
non c’erano più solo i poliziotti, ma c’era la città».
Calabrese, 52 anni, «l’investigazione come attività cerebrale», Renato
Cortese non è uomo che ama raccontarsi. Ma basta fare un giro nella sua stanza
di questore, osservando oggetti, foto, copertine di giornali incorniciate,
targhe per provare a disegnarne profilo e carriera. Sulla scrivania un corno
rosso, nella libreria alle spalle la copertina del Times dedicata
all’arresto di Giovanni Brusca “Mafia monster”, sul tavolino a fianco del
divano una grande foto di squadra con la Catturandi di Palermo, il cuore della
sua attività di cacciatore di boss nella stagione del dopo-stragi. Ma anche un
quadretto con un foglio di quaderno con su stampate le impronte di suo figlio:
«Me lo regalò la maestra in ricordo delle tante volte che avrebbe voluto tenere
la mia mano e non c’ero». E la pergamena con la cittadinanza onoraria di
Corleone a suggello di un giorno indimenticabile che Cortese ama ricordare
così: « Sfascio la porta di quel casolare e mi ritrovo davanti quest’uomo che
ovviamente non avevo mai visto prima ma, dopo otto anni, era come se l’avessi
conosciuto da sempre. Un’emozione fortissima e soprattutto, in quel casolare,
c’erano tutti i pezzi di un mosaico che con tanta fatica avevamo messo insieme
in otto anni: la macchina da scrivere, i pizzini arrotolati, il miele, la
cicoria». Dal ’93 al 2006, i tredici anni passati a Palermo, costituiscono l’hard core del
nuovo questore.
Oggi ha ritrovato una città decisamente diversa da quella che ha lasciato.
«In quegli anni uscivi la sera per strada e c’era il coprifuoco, mai visti
tanti ragazzi in giro, tanta musica, tante attività commerciali vere, tanti turisti.
Si andava negli stessi quattro, cinque ristoranti, un paio di discoteche o di
locali. C’erano i militari dei Vespri siciliani per strada, i vigili in
borghese che riconoscevi per la fascia nera al braccio. Oggi vai alla Vucciria
e trovi gente che balla in strada, musica dal vivo, Io trovo che finalmente i
palermitani vogliono vivere, lavorare, divertirsi, fare una vita normale e non
pensano alle mafie e non so dire se questo sia un bene o un male ».
Una Palermo finalmente liberata?
«Sì, penso di potere dire di sì. Certo, il fatto che la mafia e il suo
pericolo e, dall’altra parte, la necessità di un impegno personale e costante
non sia più percepito come primario, potrebbe essere un fatto negativo, ma è
anche il segno che la gente di questa città non si sente più condizionata dalla
mafia che non è più un’opzione per il futuro delle giovani generazioni. E
questo è certamente un fatto estremamente positivo».
Un fatto che oggi cambia anche il rapporto tra la polizia e la città.
«Nelle stanze della squadra mobile di Palermo, negli uffici di questa
questura anche chi, come me, non ha vissuto gli omicidi di tanti colleghi, si è
sempre respirata un’atmosfera unica. L’esperienza che io ho vissuto qui è stata
unica e non solo dal punto di vista professionale. Si viveva qui dentro, giorno
e notte, tutti insieme e credo di poter dire che nessuno di noi lo viveva come
un lavoro. I più anziani ci hanno trasmesso il peso della responsabilità di
sedere sulla stessa sedia di Ninni Cassarà o di Beppe Montana, la rabbia e la
sensazione di essere in guerra. Dovevamo prendere quelli che avevano ucciso i
nostri colleghi e i latitanti che cercavamo in quegli anni erano “caldi”, era
gente che continuava a gestire affari, ad ordinare omicidi. Le notti immobili
sui monti di Corleone o a Belmonte Mezzagno, i tre giorni trascorsi nascosti
nella cabina dell’Enel a Montagna dei Cavalli sempre in piedi in due metri per
due, niente orologi, né vite private, né feste né Natali. Ma credetemi non era
un sacrificio. Ma oggi l’impatto sociale della polizia è altro. Non siamo solo
sbirri e non serviamo solo per fare denunce. Vorrei che la questura fosse visto
anche come un luogo di mediazione, vorrei riuscire ad intervenire sulla
percezione di insicurezza diffusa tra la gente. Vorrei soprattutto che i
cittadini pensassero che il poliziotto è una persona perbene, anche se qualcuno
può sbagliare, e che trovassero in noi la risposta alle domande della vita di
tutti i giorni, dal parcheggiatore abusivo allo spacciatore davanti scuola dei
figli».
La Repubblica Palermo, 21 maggio 2017
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