Il prof. Giuseppe Governali |
Sabato 13 maggio 2017, nell'Auditorium del liceo delle scienze umane "Don G. Colletto" è stato presentato il libro del prof. Giuseppe Governali, scomparso prematuramente l'anno scorso. Ha coordinato i lavori Dino Paternostro, direttore di Città Nuove. Ha portato il saluto della scuola la preside prof.ssa Natalia Scalisi. Hanno svolto relazioni: Giovanni Perrino, poeta e dirigente scolastico; Ignazio E. Buttitta, docente dell'Univesità di Palermo; Giovanni Ruffino, presidente del Centro di studi filologici e linguistici siciliani. Fuori programma l'intervento di fra' Paolo, dei frati minori rinnovati. Pubblichiamo la premessa al libro scritta dallo stesso autore. GUARDA L'ALBUM FOTOGRAFICO
GIUSEPPE GOVERNALI
GIUSEPPE GOVERNALI
Non sono un nostalgico cantore del “buon tempo antico”, né
ho mai rivestito d’idillio la fatica del contadino che, in piedi già prima
dell’alba per la pulitura della stalla, s’avviava ai campi sul mulo col carico
di concime. Eppure custodisco in me, religiosamente, quasi testamento d’una
civiltà già morta o morente, il ricordo dell’aia e della battitura del grano,
del pane fatto in casa e delle magre cene di fredde sere invernali. E con
l’odore buono del pane, la miseria, gli stenti, le paure, l’ignoranza…
Negli anni del dopoguerra, anni ai quali risalgono i miei
primi ricordi, era considerato, dalle mie parti, già benestante il piccolo
possidente, “u buggisi”, che, per sopravvivere e aggiungere altra terra alla
terra sopportava fatiche e privazioni sovrumane.
La famiglia aveva una struttura patriarcale, con la moglie
sottomessa al marito e l’uomo che, almeno nelle occasioni di più impegnativa
ufficialità, recitava la parte del capo; i matrimoni, alcuni dei quali
riparatori, erano spesso combinati ed erano talora ripudiati e diseredati i
figli e le figlie che, non curanti del “rango”, andavano a nozze con giovani di
estrazione sociale inferiore alla loro: “Mettiti
cu i miegghiu ri tia e appizzacci i spisi” (fai lega con gente migliore di
te e non badare a spese).
Numerosa ancora la figliolanza: i figli, soprattutto i
maschi, erano ritenuti una benedizione di Dio; un po’ meno le femmine
considerate scherzosamente, ma non troppo, cambiali da pagare. Certo non usava
più la “minuta”, come i vecchi chiamavano l’elenco della biancheria e delle
masserizie passate in dote alla figlia, ma alla dote la buona massaia pensava
già fin dalla nascita della figlia:
“A figghia nn’a fascia,
a doti nn’a cascia”
(la figlia ancora in fasce e la dote nella cassa).
Risparmio e privazioni erano quindi inevitabili; più che
virtù necessità; si risparmiava su tutto, anche sul cibo: pane e pasta tutti i
giorni erano già un lusso; la carne la domenica, ma solo per i benestanti, e il
pranzo completo nelle feste grandi.
C’era ancora tanta fame e gli accattoni d’allora
ringraziavano e benedicevano per un pezzo di pane ricevuto in elemosina. E con
la fame, le carenze igieniche e le malattie: l’acqua si attingeva alle
pubbliche fontanelle, epidemie di tifo si trasformavano in vere e proprie
pestilenze, il medico e le medicine erano dei lussi ai quali spesso si
preferivano la “magara” e le sue
arti: s’individuava l’oggetto del maleficio, si bruciava alla mezzanotte in
punto, le sue ceneri si deponevano al più vicino quadrivio; poi si purificava
la casa con fumo d’incenso, fatto ardere secondo rigorosi rituali. Non c’era,
si può dire, malattia, che no fosse considerata l’effetto d’un maleficio (magaria) operato da un vicino invidioso
o da un parente. E da qui le liti feroci (sciarre)
tra famiglie di uno stesso quartiere o di una stessa strada, pittoresche e
colorite nella loro pur seria drammaticità. Misere guerre tra poveri: bastava
un nonnulla per suscitare un vespaio: l’immondizia lasciata fuoriposto, una
porta sbattuta in faccia, una canzone allusiva. E anche l’analfabetismo
imperversava: che spettacolo triste vedere all’ufficio postale anche giovani
segnare una croce su ricevute o mandati e andare in cerca di due testimoni a
garanzia della loro identità. Poi il mercato del lavoro nella piazza del paese:
masse di braccianti, in estate, invadevano il paese per la mietitura: la notte
a dormire sulle pubbliche vie, all’alba la contrattazione e il noleggio. Il
tutto controllato e guidato dalla mafia in uno Stato assente perché ancora
tutto da inventare.
Espressione del mondo sommariamente rievocato, la cultura
popolare, il dialetto e tutto quello che il dialetto rappresentava sono stati,
anche dalle nostri dalle parti, rimossi in maniera forse un po’ troppo
affrettata e inconsulta. A tale rimozione hanno insieme contribuito non tanto
la scuola, che con la pretesa di promuovere una lingua (cultura) unitaria, ha
di fatto soffocato intere etnie, quanto le grandi scelte politiche del
dopoguerra che, legando allo sviluppo industriale il destino della nostra
economia, hanno finito con l’attribuire all’agricoltura il ruolo di attività da
terzo mondo. La televisione, la pubblicità, l’imporsi di nuovi modelli di
comportamento, la fuga dalla campagna, l’immigrazione hanno poi fatto tutto il
resto. Risultato: da un lato la perdita di ogni identità culturale per quella
massa di gente che, fuggendo dalla campagna, ha tentato di trapiantarsi in
città indossando, talora goffamente, una cultura piccolo-borghese; dall’altro
la motivata paura, per chi è rimasto in campagna, dell’antica “sub-cultura”
d’origine che, o sopravvive come relitto non più in grado di evolversi e
riprodursi o, peggio, è tenuta artificialmente in vita per soddisfare i bisogni
di evasione nostalgica della gente comune e gli interessi ben più concreti dei
vari enti o associazioni per il turismo.
E allora che senso ha “riciclare”, come tento di fare con
la presente raccolta, modi di dire e proverbi caduti in disuso o destinati a
morire? E che significato può avere una presa di coscienza postuma del valore
della cultura dialettale? Forse, come negli ultimi anni di vita andava
ripetendo Pasolini, nessun altro significato all’infuori di quello di
custodire, cosa in sé meritoria, la memoria di caro estinto. O forse può
ancora, se non altro, servire ad alimentare la risentita “amarezza perché
invece di una possibile trasformazione in una civiltà agricola, degna di questo
nome, assistiamo ad una pura e semplice dissoluzione nel nulla!” [1]
Non si tratta quindi di conoscere solo il passato, ma di
realizzare le sue speranze, per evitare che “il passato continui come
distruzione del passato”.
Raccogliere e custodire infatti quanto del passato rimane e
lambisce ancora con qualche segno il presente, può voler significare riprendere
un colloquio bruscamente interrotto, ascoltare, vedere, riappropriarsi di
antiche, sopite speranze.
La speranza di finalizzare all’uomo la nuova tecnologia
dell’era post-industriale e il bisogno di ristabilire un nuovo vitale
equilibrio tra uomo e ambiente. Solo a questo patto si eviterà , per
l’avvenire, la disperata bestemmia: “la fame d’una volta era meno penosa
dell’isolamento di oggi”.
I modi di dire e i proverbi, passati in rassegna nella
presente raccolta, sono le “frasi fatte” dell’antico parlar popolare, ripescate
nella memoria, o casualmente colte nei discorsi di anziani contadini del
corleonese; alcune fanno riferimento ad aneddoti legati a figure e personaggi
realmente esistiti di cui si è cercato di recuperare la storia; altre sono
motti e “detti memorabili” che servivano a dare vigore colore ai discorsi della
gente comune, espressi con un linguaggio talora iperbolico (l’iperbole, a
giudizio di G.Bufalino, è nella natura di ogni forma di sicilianità), ma sempre
fatto di cose, ove, se metafora c’è, ne è così immediato il riscontro da non
richiedere un eccessivo sforzo di immaginazione. Si tratta in ogni caso di
REPERTI d’una letteratura “tagliata” in nome e a vantaggio di una unità
culturale grigia, idiota, rozza, tutt’altro che nazional-popolare.
Il volume è la seconda edizione aggiornata della raccolta
“Giudizi-pregiudizi-ricordi-fantasie” pubblicata nel 1990.
In appendice un elenco di proverbi suddivisi per argomento
ed interpretati secondo l’accezione che essi hanno acquisito nella zona.
Giuseppe Governali
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