La lotta alle cosche: Il nuovo volto delle mafie. A 25 anni dalle stragi
Falcone e Borsellino abbiamo incontrato il procuratore di Roma Pignatone e
l’aggiunto Prestipino. I perché dell’inarrestabile ascesa dei clan calabresi
nel crimine globale
GIUSEPPE PIGNATONE MICHELE PRESTIPINO
C’è una conversazione illuminante, in cui un boss della ‘ndrangheta spiega:
“Tu ricordati. Il mondo si divide in due: quello che è Calabria e quello che lo
diventerà”». Venticinque anni dopo le stragi Falcone e Borsellino, la mafia
siciliana di Riina e Provenzano è all’angolo. «Lo Stato ha sconfitto quella
mafia corleonese che l’aveva sfidato, un risultato straordinario attestato
dagli arresti e dalle sentenze», dice il procuratore di Roma Giuseppe
Pignatone. «Ma il vuoto criminale lasciato dalla Cosa nostra delle stragi è
stato presto colmato, dalla ’ndrangheta, che oggi è diventata la prima mafia. E
c’è ancora chi, nel mondo dell’economia, della politica, della società civile,
ritiene che la mafia non sia un disvalore, che addirittura sia conveniente
averci a che fare. Una mafia che è diventata parte del sistema della corruzione».
Un quarto di secolo dopo le bombe che hanno sconvolto il Paese, è un
bilancio di luci e ombre quello dei magistrati che a Palermo sono stati
protagonisti della vittoria dello Stato sulla cupola delle stragi, per poi
passare alla procura di Reggio Calabria. Con Giuseppe Pignatone, allora come
oggi, c’è Michele Prestipino, è il procuratore aggiunto che a Roma coordina la
Direzione distrettuale antimafia. «Nella capitale c’è uno scenario complesso —
spiega — su cui interagiscono mafie e soggetti criminali diversi». Oggi la
questione mafia in Italia è tutt’altro che risolta. Ecco perché
Repubblica ha voluto organizzare un forum con i due magistrati che a
lungo si sono occupati prima di Cosa nostra, di ‘ndrangheta e infine
dell’infiltrazione delle cosche nella capitale.
La lunga stagione della mafia corleonese è terminata nel 2006 con l’arresto
di Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. Una stagione di sangue ma
anche di complicità, cosa ha rappresentato?
Pignatone: «Un periodo durato 30 anni che ha avuto delle caratteristiche
del tutto eccezionali nella lunghissima storia delle mafie italiane, sempre
impegnate a cercare di coesistere con lo Stato. La mafia corleonese ha scelto
la sfida alle istituzioni».
Dopo l’assalto allo Stato e la chiusura di una lunga fase, quella mafia
appare in crisi. Ma siamo di fronte a fenomeni in continua evoluzione, sarebbe
dunque interessante comprendere quanto è concreto il rischio di un eventuale
ritorno al passato. In questo senso, è utile approfondire ancora una volta
l’origine delle scelte che determinarono l’avvio della stagione di sfida alle
istituzioni.
Pignatone: «Il carattere di alcuni personaggi, come Riina e Provenzano, si
è tradotto in un fattore fondamentale di spinta. Ma ha inciso molto il salto
enorme di ricchezza avvenuto con il traffico di droga: così i mafiosi si sono resi
indipendenti dai favori della politica. Contemporaneamente ha pesato l’esempio
nefasto del terrorismo: dimostrava che lo Stato poteva essere sfidato. Proprio
nel 1978, quando veniva rapito e ucciso Aldo Moro, iniziava anche la sfida
mafiosa alle istituzioni con gli omicidi chiamati eccellenti».
Smantellare l’ultimo sistema di potere mafioso dopo le stragi del 1992 non
è stato facile, ma in quella stagione è stata affinata una strategia risultata
vincente per contrastare le mafie.
Prestipino: «Ci siamo trovati a fronteggiare il sistema di potere di
Provenzano, struttura di governo dell’organizzazione e al contempo di
amministrazione delle ricchezze, che godeva anche di complicità nelle forze
dell’ordine. A sconfiggere quel sistema è stato un impegno corale lungo sette
anni: una vittoria dello Stato. Magistratura, forze dell’ordine, ma anche tante
altre istituzioni a Palermo».
Cosa è rimasto di quella Cosa nostra?
Pignatone: «I capi di Cosa nostra sono delle intelligenze criminali, hanno
un sistema di relazioni col mondo esterno accumulate in decine di anni,
hanno capacità di gestione delle ricchezze. Se vengono arrestate, non è facile
sostituirle. Dopo la cattura di Provenzano, è rimasta una struttura unitaria,
ma, per quel che sappiamo, almeno finora, non è riuscita a ricostituire una
struttura di vertice. Ecco il successo dello Stato, essere riusciti a
condannare un numero altissimo di associati e poi aver messo in campo
un’aggressione imponente ai loro patrimoni. Infine, il numero elevato di
collaboratori di giustizia ha minato l’affidabilità dell’organizzazione, che
agli occhi dei narcotrafficanti stranieri non offre più le garanzie di un
tempo. Questo vuoto criminale è stato colmato dai calabresi».
La ’ndrangheta è riuscita ad ottenere un ruolo dominante in breve tempo,
facendo anche tesoro delle scelte attuate dai siciliani. Ma è ormai evidente
che c’è qualcosa di più insidioso nella nuova emergenza mafia.
Pignatone: «I calabresi hanno messo a fattore positivo tutto l’inverso dei
siciliani. Non hanno commesso “omicidi eccellenti” e quindi la repressione non
aveva mai avuto l’inten- sità, né ottenuto i risultati registrati in
Sicilia. E poi in Calabria, i collaboratori di giustizia continuano a rimanere
pochi e di scarso rilievo. È infine determinante la presenza delle cosche fuori
dalla regione: sono nel resto d’Italia e in molti paesi stranieri».
Prestipino: «Cosa nostra ha governato sempre e soltanto su una parte del
territorio siciliano, non ha mai nutrito mire espansionistiche. I mafiosi a
Milano andavano in trasferta, per fare affari. La ’ndrangheta è riuscita invece
a mettere insieme la rigidità arcaica delle regole con la flessibilità del
sistema organizzativo ed una prospettiva globale. Ragioniamo di
un’organizzazione che oltre ad avere una “sede sociale”, ha delle “filiali”
riconosciute, dal nord dell’Italia all’Australia».
Già, ma la ‘ndrangheta oltre alla forza colonizzatrice oggi è anche come
una potenza economica.
Prestipino: «Pagano mille un chilo di cocaina e in poco tempo guadagnano 33
volte tanto. Così il primato nel traffico di droga ha portato all’accumulazione
di ricchezze vere e alla necessità di investimenti, che non potevano essere
fatti in Calabria. Meglio comprare dieci ristoranti a Roma e a Milano, meglio
investire nell’economia legale, dà meno nell’occhio ».
Le indagini continuano a mettere in evidenza imprenditori in affari con i
boss.
Prestipino: «In molte aule universitarie, dove si formano imprenditori e
professionisti, si insegna ancora oggi che il denaro è neutro, che l’origine
del denaro non è importante. Si insegna che se il denaro circola è un bene per
l’economia, per fare sviluppare il mercato, a prescindere».
Pignatone: «I calcoli di convenienza sono stati anche del politico, che
riceve i voti; dell’imprenditore, che riceve finanziamenti o ottiene di
limitare la concorrenza di altri imprenditori. I calcoli di convenienza sono
stati persino di magistrati o pubblici funzionari».
Eppure, dopo le stragi e una lunga stagione di processi e sentenze, la
mafia dovrebbe essere ormai un disvalore generalizzato.
Pignatone: «Che la mafia sia un disvalore non è un dato unanimemente
accettato. Ci sono quelli che non credono proprio sia un disvalore; altri, con
vari livelli di buonafede, soprattutto fuori dalle regioni di origine delle
organizzazioni, rimuovono il problema».
La mafia delle stragi è stata sconfitta.
Qual è lo stato della lotta all’ndrangheta?
Pignatone: «L’equivalente per la ‘ndrangheta del maxiprocesso a Cosa nostra
sono state le due sentenze Crimine, pronunciate nel 2014 e nel 2016. Sono
passati 25 anni prima che fosse formalizzata l’esistenza dell’ndrangheta, come
organizzazione unitaria e su base verticistica, un dato che deve far
riflettere. Lo Stato non ha risorse infinite, ha dovuto prima fronteggiare il
terrorismo, poi la mafia in Sicilia, poi lo sforzo è arrivato anche in
Calabria».
Le indagini continuano a mettere in risalto rapporti fra le organizzazioni
criminali e la politica. Si articolano in modo diverso rispetto al passato?
Pignatone: «L’essenza della mafia è cercare la coesistenza con lo Stato e i
rapporti con tutte le fasce possibili, a cominciare proprio dalla politica.
Sono state tante le indagini su uomini politici, con risultati processuali più
positivi di quanto si creda. Sono indagini difficili, perché si tratta di
individuare condotte talora sfuggenti e spesso non illecite di per sé. E
attorno a noi, la società non sempre coglie il disvalore sociale di queste
condotte».
Il fenomeno si manifesta più a livello nazionale o locale?
Pignatone: «Negli ultimi 15 anni i centri di spesa si sono spostati, dallo
Stato alle Regioni, ai Comuni. Ecco perché le indagini evidenziano condotte
illecite di pubblici funzionari più a livello locale che nazionale. Poi, incide
anche il fattore rischio: il politico nazionale è più sotto i riflettori, è dunque
più prudente».
Prestipino: «A Palermo, era difficile trovare un collegamento diretto fra
mafiosi e politici, c’erano degli intermediari, spesso erano imprenditori. In
Calabria, invece, il politico andava a parlare direttamente con il capo
‘ndranghetista».
Pignatone: «La Calabria in cui abbiamo lavorato, quella del 2008, ricordava
la Sicilia di 30 anni prima: i clan non temevano lo Stato».
Poi, è arrivata Mafia Capitale. E si è aperto il dibattito sul reato di
associazione mafiosa: è adatto a cogliere i cambiamenti avvenuti nelle mafie o
soffre di invecchiamento?
Pignatone: «Il 416 bis rimane la norma migliore possibile, è stato uno
strumento che si è rivelato adeguato a fronteggiare anche alcune forme di mafia
particolari, come la presenza della ’ndrangheta al Nord. Già prima ancora che
si ponesse la questione del cosiddetto “Mondo di mezzo”, di cui non intendo
parlare perché c’è un processo in corso, la Cassazione era stata chiara:
un’organizzazione che non abbia centinaia di adepti, ma poche decine, che non
controlli un territorio come le mafie tradizionali, ma che abbia come
caratteristica la disponibilità della violenza e usa il metodo mafioso, anche
se non c’è il ricorso al Kalashnikov, va qualificata come associazione mafiosa.
Ecco perché il reato previsto dall’articolo 416 bis si applica anche al di
fuori di mafia, camorra, ‘ndrangheta. Per altro verso, bisogna stare attenti,
non qualsiasi crimine organizzato è associazione mafiosa. Ad esempio, la
spartizione degli appalti può dar luogo a un’associazione a delinquere
semplice, o a una serie di condanne per corruzione. La Cassazione precisa che è
necessaria la riserva di violenza, ovvero la possibilità di esercitare la
violenza. Come dice il professore Ciconte: “Hai la pistola nel comodino e sei
pronto a tirarla fuori”».
Prestipino: «A Roma, ci sono già state altre sentenze nei confronti di
componenti di gruppi che non erano di mafia tradizionale. In Italia, sono
almeno quattro le organizzazioni che più si distanziano dal modello
tradizionale riconosciute come mafiose dalle sentenze: tre organizzazioni
nigeriane, fra Torino, Roma e Napoli. Poi, un’organizzazione cinese in Toscana.
Sentenze che non hanno certo suscitato reazioni o critiche».
Oggi, nel capitale sociale delle mafie, la violenza sembra essere in
secondo piano.
Più in evidenza è la corruzione.
Pignatone: «Le mafie hanno sempre fatto ricorso alla corruzione. Cito un
passo di Franchetti, che nella sua Inchiesta in Sicilia del 1876 scriveva: “La
mafia ha tante di quelle persone che le sono debitrici per i servigi ricevuti
che ormai non ha più bisogno di ricorrere alla violenza, anche se la sua stessa
esistenza si fonda su questo”. Quest’ultimo concetto equivale alla “riserva di
violenza” di cui parla la Cassazione. La scelta dei mafiosi è quella di
ricorrere il meno possibile alla violenza aperta, a volte sanno essere
protagonisti della corruzione sistemica che caratterizza la nostra società».
A Roma le mafie ci sono tutte, ma nessuna sembra comandare.
Prestipino: «Lo scenario della Capitale è complesso, con protagonisti
diversi. Ci sono le derivazioni delle mafie tradizionali, con moduli
organizzativi che spesso non sono sovrapponibili a quelli dei territori di
origine. Ad esempio, i calabresi: fuori dal perimetro della città, a Fondi e
Nettuno, costituiscono le “locali”, a Roma non lo progettano neanche. Poi, ci
sono gruppi organizzati che stabilmente stanno a Roma e vi hanno delocalizzato
parte delle loro attività dai luoghi di provenienza. I Molè, calabresi,
controllavano da Gioia Tauro le sale gioco con un sistema video. A Roma,
operava un uomo riconosciuto chiaramente come loro referente. I Contini di
Napoli potevano contare invece su un insospettabile imprenditore per la
gestione delle loro pizzerie. In città, riscontiamo poi la presenza di una
serie di gruppi della malavita romana, molto strutturati, che finora non
possiamo qualificare come organizzazioni mafiose, ma che hanno cominciato a
praticare il metodo mafioso. È un aspetto molto preoccupante.
Pignatone: «In conclusione è utile leggere una citazione di don Luigi
Sturzo, che nel 1900 scriveva: “La mafia oggi serve per domani essere servita,
protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma atterra anche a Roma,
penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti,
sottrae documenti, costringe uomini, creduti fior d’onestà, ad atti disonoranti
e violenti”. Niente di nuovo nella Capitale. Anche se deve essere chiaro che la
nostra analisi, per forza di cose, riguarda la patologia criminale delle
relazioni e che, comunque, l’esperienza giudiziaria di questi anni dimostra che
a Roma esiste una questione mafia, ma che, come abbiamo sempre detto, anche dal
punto di vista giudiziario, non è il più grave dei suoi problemi».
La Repubblica, 7 maggio 2017
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