ROBERTO SAVIANO
Perché i fatti di San Severo sono una sconfitta per la coscienza di tutti noi
LO SCORSO novembre sono stato a Foggia, invitato dall’Università.
Arrivo e vengo sommerso dal racconto di un territorio piegato dalle azioni
continue della criminalità organizzata locale. Sommerso dal grido d’allarme di
un territorio in guerra. Di un territorio esausto. Di un territorio che non è
raccontato dai media nazionali se non in casi rarissimi, se non quando è
praticamente impossibile tacere. La politica locale, nel Foggiano, è sola. I
sindaci affrontano quotidianamente un’emergenza criminale che è diventata ingestibile.
Ciò che è accaduto negli scorsi giorni lo sappiamo; vale la pena però
collegarlo a ciò che accade nel Foggiano quotidianamente. Il Gran Ghetto, sorto
tra San Severo e Rignano Garganico, era una baraccopoli in cui vivevano i
braccianti immigrati che lavorano nelle campagne pugliesi. Erano iniziate le
operazioni di sgombero quando nella notte tra il 2 e il 3 marzo scoppia un
incendio.
NEL ROGO muoiono due immigrati, Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, di 33
e 36 anni. Erano fuggiti dal Mali. Le prime ipotesi riguardo all’incendio hanno
tutto il sapore del più anacronistico negazionismo. Le stufe con cui gli
immigrati si riscaldavano sarebbero colpevoli della tragedia. A questa notizia
la politica, quella locale e miope e quella nazionale e distante, tira un
sospiro di sollievo e commenta: “Colpa loro, se avessero accettato di lasciare
la baraccopoli ora sarebbero vivi”. Vivi sì, ma comunque schiavi. La politica,
quella che è sempre pronta a smarcarsi, a dire io non c’ero e se c’ero nulla ho
visto, non ha fatto i conti con il risvolto delle indagini secondo le quali, a
quanto pare, l’incendio sarebbe invece di origine dolosa, quindi una cosa
possiamo dirla: i due immigrati maliani sono morti e non per colpa loro,
ma per volontà di altri.
C’è di più: ciò che a noi sembra un controsenso è invece un comportamento
dettato da necessità. Perché — molti italiani si saranno chiesti — avendo la
possibilità di spostarsi in appartamenti messi a disposizione dalla Regione
Puglia, dal Comune di San Severo e dalla Caritas gli immigrati avrebbero
preferito rimanere nella baraccopoli? Lo spiega bene don Andrea Pupilla,
direttore della Caritas diocesana di San Severo: «Il loro bisogno più grande è
il lavoro e lì lo trovano tramite i caporali». Quella campagna, meravigliosa e
dannata, gli immigrati non volevano lasciarla perché è lì che i caporali li
arruolano per il lavoro nei campi. È lì che loro possono mantenere il lavoro.
Durissimo, malpagato, degradante, ma lavoro. E il lavoro è ciò di cui quelle
persone hanno bisogno più di ogni altra cosa. Con la crisi occupazionale che
sta vivendo il nostro Paese da decenni, la perdita del lavoro è una tragedia
che gli italiani possono capire, senza ulteriori spiegazioni.
Ma don Andrea Pupilla aggiunge un commento difficile da metabolizzare:
«Questa è una sconfitta per tutti perché vuol dire che i caporali sono capaci
di dare più lavoro rispetto alla società ». E dire caporali, significa
criminalità organizzata. Significa dire, come per decenni abbiamo detto
riguardo alla Campania, che la criminalità organizzata, in alcune regioni
del nostro Paese, è welfare dove lo Stato colpevolmente manca.
Ed è qui il cortocircuito: una prassi che esiste, che è rodata, ma di cui
non si parla in una regione preda di organizzazioni criminali efferate, ma che
viene raccontata come un’oasi del turismo, come un luogo che ha saputo non
piegarsi al commerciale. È ora di aprire gli occhi: la Puglia è isolata, e
siccome è isolata, è anche sola. Nella settimana che ha preceduto il mio arrivo
è stato assaltato un treno a Cerignola, in piena campagna, costretto a fermarsi
per un’auto posta sui binari e data alle fiamme. L’auto era stata rubata a
Manfredonia. Qualche giorno prima era stato assaltato un pullman diretto a Roma
e i passeggeri rapinati. Quattro uomini armati e incappucciati hanno minacciato
e rapinato 70 passeggeri. Non abbiamo sentito Matteo Salvini urlare indignato,
come è accaduto per il traghetto Cagliari-Napoli, perché in quella circostanza
i criminali erano italianissimi. E poi ancora rapinata una guardia giurata,
mentre consegnava settantacinquemila euro a un corriere.
A Foggia ho trovato un clima da “assalto alla diligenza” e lo sconforto più totale
per la mancanza di attenzione. Era necessaria la tragedia per obbligarci a
parlarne: ovvero due ragazzi morti nella baraccopoli e poi i colpi di arma da
fuoco a San Severo, esplosi contro due automezzi della polizia del Reparto
Prevenzione Crimine, in città per seguire le operazioni dello sgombero dei migranti
dal Gran Ghetto. Due morti e la sfida: andate via, qui comandiamo noi. Qui
abbiamo noi diritto di vita e di morte sui migranti. Questa terra è roba
nostra.
La criminalità cresce quando è lontana dai riflettori. Cresce quando la
prima ipotesi per spiegare un atto criminale è dire che si tratta di un atto
isolato, di criminali non organizzati che agiscono da soli. Quando non si
riesce a leggere un quadro che nel suo complesso è chiarissimo. Quando si fa di
tutto per difendere quella che ci hanno abituati a chiamare “onorabilità” di un
territorio, come se in presenza di organizzazioni criminali quello stesso
territorio perdesse ogni gloria e ogni onore. Oggi l’attenzione verso la Puglia
deve essere massima, perché non le capiti ciò che Campania e Sicilia hanno
vissuto negli anni Ottanta. Tutto era palese, ma per paura di non riuscire a
fronteggiare l’emergenza criminalità, per paura di compromettere il
turismo, per paura di mandare in rovina carriere politiche, per paura mista a
collusioni di sorta, non fu possibile a lungo un racconto onesto del
territorio.
Nel 2008 Alessandro Leogrande scrive Uomini e caporali. Viaggio tra i
nuovi schiavi nelle campagne del Sud, un libro fondamentale in cui
racconta di come il Tavoliere delle Puglie, ogni estate, si riempia di
immigrati provenienti dall’Africa e dall’Europa dell’Est, impegnati nella
raccolta dei pomodori. I nuovi schiavi che vivono in casolari diroccati, in
baraccopoli o dove capita, condizioni igieniche atroci, lavoro massacrante e
salari da fame, sono vittime dei caporali, vera piaga della Puglia. Legati a
doppio filo alle organizzazioni criminali. Anni fa raccontai in televisione la
storia di Yvan Sagnet, un ragazzo venuto in Italia dal Camerun per studiare
ingegneria al Politecnico di Torino. Yvan, classe ‘85, fu tra i promotori di
una rivolta nelle campagne salentine di Nardò. Era arrivato in Puglia ai primi
di luglio del 2011. Aveva bisogno di lavorare in estate perché i soldi della
borsa di studio non bastavano. Alcuni amici di Torino gli raccontarono che al
Sud poteva andare a lavorare per la raccolta del pomodoro. Yvan trovò
condizioni di vita e lavorative che definirle degradanti sarebbe un eufemismo.
Tutti possiamo leggere il racconto della rivolta di Nardò nel libro
Ama il tuo sogno. Sagnet ci racconta dei maltrattamenti a cui sono
sottoposti i lavoratori, anche diciotto ore consecutive a lavorare e molte
sotto il sole cocente. Chi sviene non è assistito, se vuole raggiungere
l’ospedale deve pagare il trasporto ai caporali. Quel lavoro costa poco, appena
4 euro a cassone, un cassone è una tonnellata e per riempirlo ci vuole molto
tempo. Quando però ai braccianti viene chiesto di riempire i cassoni con
pomodori selezionati, raddoppiando la fatica, ma allo stesso prezzo, Yvan e gli
altri suoi colleghi si sollevano. Il sistema dei campi di lavoro è
appositamente studiato per togliere ai braccianti anche l’ultimo scampolo di
umanità, umanità che noi dobbiamo presidiare, raccontando.
La Repubblica, 7 marzo 2017
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