mercoledì, marzo 08, 2017

Uomini e caporali nella Puglia che brucia

ROBERTO SAVIANO
Perché i fatti di San Severo sono una sconfitta per la coscienza di tutti noi
LO SCORSO novembre sono stato a Foggia, invitato dall’Università. Arrivo e vengo sommerso dal racconto di un territorio piegato dalle azioni continue della criminalità organizzata locale. Sommerso dal grido d’allarme di un territorio in guerra. Di un territorio esausto. Di un territorio che non è raccontato dai media nazionali se non in casi rarissimi, se non quando è praticamente impossibile tacere. La politica locale, nel Foggiano, è sola. I sindaci affrontano quotidianamente un’emergenza criminale che è diventata ingestibile.
Ciò che è accaduto negli scorsi giorni lo sappiamo; vale la pena però collegarlo a ciò che accade nel Foggiano quotidianamente. Il Gran Ghetto, sorto tra San Severo e Rignano Garganico, era una baraccopoli in cui vivevano i braccianti immigrati che lavorano nelle campagne pugliesi. Erano iniziate le operazioni di sgombero quando nella notte tra il 2 e il 3 marzo scoppia un incendio.


NEL ROGO muoiono due immigrati, Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, di 33 e 36 anni. Erano fuggiti dal Mali. Le prime ipotesi riguardo all’incendio hanno tutto il sapore del più anacronistico negazionismo. Le stufe con cui gli immigrati si riscaldavano sarebbero colpevoli della tragedia. A questa notizia la politica, quella locale e miope e quella nazionale e distante, tira un sospiro di sollievo e commenta: “Colpa loro, se avessero accettato di lasciare la baraccopoli ora sarebbero vivi”. Vivi sì, ma comunque schiavi. La politica, quella che è sempre pronta a smarcarsi, a dire io non c’ero e se c’ero nulla ho visto, non ha fatto i conti con il risvolto delle indagini secondo le quali, a quanto pare, l’incendio sarebbe invece di origine dolosa, quindi una cosa possiamo dirla: i due immigrati maliani sono morti e non per colpa loro, ma per volontà di altri.
C’è di più: ciò che a noi sembra un controsenso è invece un comportamento dettato da necessità. Perché — molti italiani si saranno chiesti — avendo la possibilità di spostarsi in appartamenti messi a disposizione dalla Regione Puglia, dal Comune di San Severo e dalla Caritas gli immigrati avrebbero preferito rimanere nella baraccopoli? Lo spiega bene don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana di San Severo: «Il loro bisogno più grande è il lavoro e lì lo trovano tramite i caporali». Quella campagna, meravigliosa e dannata, gli immigrati non volevano lasciarla perché è lì che i caporali li arruolano per il lavoro nei campi. È lì che loro possono mantenere il lavoro. Durissimo, malpagato, degradante, ma lavoro. E il lavoro è ciò di cui quelle persone hanno bisogno più di ogni altra cosa. Con la crisi occupazionale che sta vivendo il nostro Paese da decenni, la perdita del lavoro è una tragedia che gli italiani possono capire, senza ulteriori spiegazioni.
Ma don Andrea Pupilla aggiunge un commento difficile da metabolizzare: «Questa è una sconfitta per tutti perché vuol dire che i caporali sono capaci di dare più lavoro rispetto alla società ». E dire caporali, significa criminalità organizzata. Significa dire, come per decenni abbiamo detto riguardo alla Campania, che la criminalità organizzata, in alcune regioni del nostro Paese, è welfare dove lo Stato colpevolmente manca.
Ed è qui il cortocircuito: una prassi che esiste, che è rodata, ma di cui non si parla in una regione preda di organizzazioni criminali efferate, ma che viene raccontata come un’oasi del turismo, come un luogo che ha saputo non piegarsi al commerciale. È ora di aprire gli occhi: la Puglia è isolata, e siccome è isolata, è anche sola. Nella settimana che ha preceduto il mio arrivo è stato assaltato un treno a Cerignola, in piena campagna, costretto a fermarsi per un’auto posta sui binari e data alle fiamme. L’auto era stata rubata a Manfredonia. Qualche giorno prima era stato assaltato un pullman diretto a Roma e i passeggeri rapinati. Quattro uomini armati e incappucciati hanno minacciato e rapinato 70 passeggeri. Non abbiamo sentito Matteo Salvini urlare indignato, come è accaduto per il traghetto Cagliari-Napoli, perché in quella circostanza i criminali erano italianissimi. E poi ancora rapinata una guardia giurata, mentre consegnava settantacinquemila euro a un corriere.
A Foggia ho trovato un clima da “assalto alla diligenza” e lo sconforto più totale per la mancanza di attenzione. Era necessaria la tragedia per obbligarci a parlarne: ovvero due ragazzi morti nella baraccopoli e poi i colpi di arma da fuoco a San Severo, esplosi contro due automezzi della polizia del Reparto Prevenzione Crimine, in città per seguire le operazioni dello sgombero dei migranti dal Gran Ghetto. Due morti e la sfida: andate via, qui comandiamo noi. Qui abbiamo noi diritto di vita e di morte sui migranti. Questa terra è roba nostra.
La criminalità cresce quando è lontana dai riflettori. Cresce quando la prima ipotesi per spiegare un atto criminale è dire che si tratta di un atto isolato, di criminali non organizzati che agiscono da soli. Quando non si riesce a leggere un quadro che nel suo complesso è chiarissimo. Quando si fa di tutto per difendere quella che ci hanno abituati a chiamare “onorabilità” di un territorio, come se in presenza di organizzazioni criminali quello stesso territorio perdesse ogni gloria e ogni onore. Oggi l’attenzione verso la Puglia deve essere massima, perché non le capiti ciò che Campania e Sicilia hanno vissuto negli anni Ottanta. Tutto era palese, ma per paura di non riuscire a fronteggiare l’emergenza criminalità, per paura di compromettere il turismo, per paura di mandare in rovina carriere politiche, per paura mista a collusioni di sorta, non fu possibile a lungo un racconto onesto del territorio.
Nel 2008 Alessandro Leogrande scrive Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, un libro fondamentale in cui racconta di come il Tavoliere delle Puglie, ogni estate, si riempia di immigrati provenienti dall’Africa e dall’Europa dell’Est, impegnati nella raccolta dei pomodori. I nuovi schiavi che vivono in casolari diroccati, in baraccopoli o dove capita, condizioni igieniche atroci, lavoro massacrante e salari da fame, sono vittime dei caporali, vera piaga della Puglia. Legati a doppio filo alle organizzazioni criminali. Anni fa raccontai in televisione la storia di Yvan Sagnet, un ragazzo venuto in Italia dal Camerun per studiare ingegneria al Politecnico di Torino. Yvan, classe ‘85, fu tra i promotori di una rivolta nelle campagne salentine di Nardò. Era arrivato in Puglia ai primi di luglio del 2011. Aveva bisogno di lavorare in estate perché i soldi della borsa di studio non bastavano. Alcuni amici di Torino gli raccontarono che al Sud poteva andare a lavorare per la raccolta del pomodoro. Yvan trovò condizioni di vita e lavorative che definirle degradanti sarebbe un eufemismo. Tutti possiamo leggere il racconto della rivolta di Nardò nel libro
Ama il tuo sogno. Sagnet ci racconta dei maltrattamenti a cui sono sottoposti i lavoratori, anche diciotto ore consecutive a lavorare e molte sotto il sole cocente. Chi sviene non è assistito, se vuole raggiungere l’ospedale deve pagare il trasporto ai caporali. Quel lavoro costa poco, appena 4 euro a cassone, un cassone è una tonnellata e per riempirlo ci vuole molto tempo. Quando però ai braccianti viene chiesto di riempire i cassoni con pomodori selezionati, raddoppiando la fatica, ma allo stesso prezzo, Yvan e gli altri suoi colleghi si sollevano. Il sistema dei campi di lavoro è appositamente studiato per togliere ai braccianti anche l’ultimo scampolo di umanità, umanità che noi dobbiamo presidiare, raccontando.

La Repubblica, 7 marzo 2017

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