Falcone e Borsellino (Ph. Tony Gentile) |
Quella sera di primavera alla Kalsa tra mafia,
politica e “terzo livello” Ecco come una foto diventò un’icona. Era il 27 marzo del ‘92. Appena quindici giorni prima
avevano ucciso Salvo Lima. Pochi mesi dopo sarebbero arrivate le stragi che
hanno cambiato l’Italia
ATTILIO BOLZONI
LA KALSA, il quartiere più arabo e sensuale di Palermo. Uno di quei luoghi che ritornano, come i destini che si rincorrono. È lì
che sono visti per la prima volta ed lì che si sono visti per l’ultima volta. A
un passo da dove erano nati. Uno in via Castrofilippo, dietro la piazza della Magione, chiese
sconsacrate, palazzi cadenti, tuguri abbandonati. L’altro in via della
Vetreria, nel caseggiato dei marchesi Salvo dal cui terrazzo si scorgeva un
angolo del Foro Italico. La Kalsa degli emiri e dei condottieri, la Kalsa degli
sguatteri e dei contrabbandieri, la Kalsa di Giovanni Falcone e di Paolo
Borsellino. Nella vita e in una foto. La più famosa, la più esibita, la più
tenera. Perché è l’ultima insieme.
Erano lì, in un salone, noi tutti schiacciati contro il muro per
ascoltarli. L’occasione era la presentazione della candidatura alla Camera di
Giuseppe Ayala, un loro amico che era stato pubblico ministero al maxiprocesso.
Le elezioni del 5 aprile 1992, le prime nell’era di Mani Pulite e alla vigilia
delle stragi che avrebbero cambiato l’Italia.
Mi ricordo, me li ricordo quasi appiccicati, come se fossero uno dentro
l’altro, come se conoscessero già la loro sorte. Non era più tanto facile
vederli insieme, come solo qualche anno prima nell’ammezzato buio dell’ufficio
istruzione. Due rampe di scale, la stanza del maresciallo della finanza Angelo Crispino,
il capo scorta Antonino Montinaro sprofondato nel divano, Giovanni Paparcuri
che spariva in archivio, loro due che di tanto in tanto riemergevano dal
bunker. Falcone magari con una mela in mano che era il suo pranzo, Borsellino
con la sigaretta sempre fra le dita.
Falcone viveva a Roma ormai dal marzo del ‘91 e Borsellino era barricato
nella sua stanza in procura a Palermo.
Altri scatti di quella giornata (Ph. Tony Gentile) |
Quella sera si erano ritrovati nelle sale di Palazzo Trinacria, dove Tomasi
di Lampedusa aveva ambientato le ultime ore di vita del Gattopardo con il
principe di Salina su un balcone a guardare il mare «immobile, compatto e
oleoso », sorridevano, si sussurravano qualcosa, si allontanavano per un
momento per poi riavvicinarsi ancora. Alla fine dell’incontro, fuori, qualcuno
pose la solita domanda a Falcone. Sul “terzo livello”, era il tormentone degli
ultimi anni. A molti di noi piaceva credere (dovrei aggiungere, nella nostra
grossolanità di pensiero sulle faccende mafiose) che quel “terzo livello” ci
fosse davvero, un grado superiore alla Cupola, qualcosa che stesse più in alto
e che avesse a che fare con misteriosissime entità. Per giustificarne
l’esistenza avevamo preso per buono un report della Dea, l’Antidroga americana,
che Falcone — pazientemente ma puntigliosamente — aveva tentato più volte di
spiegare che parlava d’altro e non dei “gradini” del crimine italiano. Perché,
insistette anche lì a Palazzo Trinacria leggendo la delusione su molte facce,
Cosa Nostra non era al servizio di nessuno: solo di Cosa Nostra.
Sparirono in fondo a via Butera, prima Falcone e poi Borsellino.
Né l’uno e né l’altro parlò quella sera di cosa era accaduto quindici
giorni prima in uno dei vialetti di Mondello. Quindici giorni prima
avevano ucciso Salvo Lima, l’uomo di Andreotti in Sicilia, il suo tramite con
la mafia. Gli erano scivolati alle spalle, poi avevano sparato. Un omicidio —
“delitti eccellenti” li chiamavamo a Palermo — che aveva ratificato una rottura
fra i vertici di Cosa Nostra e la direzione della Democrazia cristiana
siciliana. Una crisi diplomatica tra le due istituzioni più potenti dell’isola.
Non sono sicuro se il 12 marzo precedente Falcone fosse davvero sul
vialetto di Mondello o se, quella presenza, l’ho ricostruita con la mia
immaginazione perché lo volevo per forza lì quella mattina. Qualcuno mi ha
sempre confermato che c’era, dopo tanto tempo non lo posso giurare. Ma ancora
oggi, dopo venticinque anni, mi sembra di vederlo accanto al cadavere di Lima
mentre diceva: «Da questo momento può accadere di tutto».
La Repubblica, 27 marzo 2017
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