di MATTEO SCIRE'
Sono le schiave di oggi. Si tratta delle 7.500 donne vittime del caporalato in Sicilia, di cui 2.500 straniere, residenti principalmente nelle province di Catania, Siracusa e Ragusa, quelle a maggiore vocazione agricola. L’agricoltura tuttavia non è l’unico settore produttivo in cui il fenomeno è diffuso. Il caporalato è presente nel campo dell’edilizia, dei trasporti e della distribuzione. Di questo si è parlato oggi nel corso del convegno della Coldiretti, “Etica e legalità in campagna. La legge sul caporalato”, che si è tenuto stamani presso la sala Mattarella di Palazzo dei Normanni. I rappresentanti nazionali e locali dell’associazione e gli agricoltori dell’Isola si sono confrontati sul tema, alla luce della recente normativa approvata dal Parlamento nell’ottobre scorso. L’incontro si è aperto con il ricordo di Paola Clemente, la bracciante deceduta nelle campagne di Andria, in provincia di Bari. Località che la donna raggiungeva ogni giorno dalla Calabria per lavorare nei campi in cambio di 27 euro al giorno. Come accade spesso nel nostro Paese è stata la sua morte, che ha commosso tutta l’Italia, ad accelerare l’iter di approvazione di una legge ad hoc. Una norma che ha contribuito a far arrestare i suoi carnefici.
Sono le schiave di oggi. Si tratta delle 7.500 donne vittime del caporalato in Sicilia, di cui 2.500 straniere, residenti principalmente nelle province di Catania, Siracusa e Ragusa, quelle a maggiore vocazione agricola. L’agricoltura tuttavia non è l’unico settore produttivo in cui il fenomeno è diffuso. Il caporalato è presente nel campo dell’edilizia, dei trasporti e della distribuzione. Di questo si è parlato oggi nel corso del convegno della Coldiretti, “Etica e legalità in campagna. La legge sul caporalato”, che si è tenuto stamani presso la sala Mattarella di Palazzo dei Normanni. I rappresentanti nazionali e locali dell’associazione e gli agricoltori dell’Isola si sono confrontati sul tema, alla luce della recente normativa approvata dal Parlamento nell’ottobre scorso. L’incontro si è aperto con il ricordo di Paola Clemente, la bracciante deceduta nelle campagne di Andria, in provincia di Bari. Località che la donna raggiungeva ogni giorno dalla Calabria per lavorare nei campi in cambio di 27 euro al giorno. Come accade spesso nel nostro Paese è stata la sua morte, che ha commosso tutta l’Italia, ad accelerare l’iter di approvazione di una legge ad hoc. Una norma che ha contribuito a far arrestare i suoi carnefici.
La responsabile nazionale Coldiretti
donna impresa, Lorella Ansaloni, quella regionale Tina
Alfieri e il capo area gestione del personale, lavoro e relazioni
sindacali dell’Associazione, Romano Magrini, hanno ribadito il loro
impegno contro ogni forma di caporalato. Coldiretti, infatti, ha sostenuto
l’adozione della legge e ha aderito alla Rete del lavoro agricolo di qualità,
che esclude qualsiasi forma di sfruttamento del lavoro.
Tutti hanno però posto il problema dell’indicazione del Paese d’origine nelle materie prime. E’ questo uno degli strumenti richiesti da tempo dalla Coldiretti per combattere il fenomeno del caporalato che si consuma negli altri Paesi e che è alla base della sleale concorrenza subita dai produttori italiani. Impossibile competere con chi paga i lavoratori 5 euro al giorno, in Marocco piuttosto che in Albania. Si tratta di una garanzia per l’impresa, per il lavoratore e per il consumatore, che in questo modo viene informato sulla provenienza del prodotto.
Tutti hanno però posto il problema dell’indicazione del Paese d’origine nelle materie prime. E’ questo uno degli strumenti richiesti da tempo dalla Coldiretti per combattere il fenomeno del caporalato che si consuma negli altri Paesi e che è alla base della sleale concorrenza subita dai produttori italiani. Impossibile competere con chi paga i lavoratori 5 euro al giorno, in Marocco piuttosto che in Albania. Si tratta di una garanzia per l’impresa, per il lavoratore e per il consumatore, che in questo modo viene informato sulla provenienza del prodotto.
Nel suo intervento il comandante
della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, Guido Volpe, ha descritto
le diverse forme di caporalato. Non esiste, infatti, un’unica
figura di caporale, ma diverse tipologie ognuna con ruoli e mansioni ben
definite. C’è, ad esempio, il caporale lavoratore, detto anche “caponero”, che
ha il compito di organizzare le squadre di lavoro. C’è il caporale tassista,
che invece si occupa di portare i lavoratori sul campo. C’è l’aguzzino, quello
che ricorre sistematicamente a violenze e minacce e sottrae i documenti agli
operai per ricattarli. C’è addirittura il caporale venditore, ovvero colui che
impone la vendita dei beni di prima necessità e che fornisce l’alloggio.
Un sistema di controllo che, facendo
leva sul bisogno e sulla disperazione, annienta la libertà e la dignità delle
persone. Le donne non sono le vittime principali del caporalato, ma quelle
maggiormente sfruttate in alcuni settori produttivi e in alcuni contesti,
perchè più abili e più assoggettabili alla volontà dei capi rispetto agli
uomini. Molte vengono adoperate in alcuni ambiti specifici, come la raccolta
delle fragole. In tutto il Paese sono circa 40.000 mila a
fronte di circa 400.000 lavoratori.
Non mancano, purtroppo, casi
di violenza sessuale, come è accaduto a Vittoria, in provincia di
Ragusa, dove una donna romena di 45 anni è stata per diverso tempo violentata
dal suo datore di lavoro. Per quattro volte è rimasta incinta e per quattro
volte ha dovuto abortire da sola. Tutti i giorni della settimana doveva
lavorare senza sosta, mentre la notte doveva subire le violenze del
padrone, fino a quando non ha trovato il coraggio di denunciare tutto alle
forze dell’ordine.
La nuova legge ha reso più efficace il
contrasto del fenomeno. Innanzitutto perché ha trasformato la violenza in un
aggravante e non più in una condizione necessaria per la contestazione del
reato, come previsto dalla normativa precedente. Oggi basta la constatazione
della semplice intermediazione. Oltre al caporale viene punito anche il datore
di lavoro. Questo, quindi, non potrà più rifugiarsi nel rifugio del “non potevo
sapere”. La legge, inoltre, inasprisce le pene prevedendo la la detenzione da 1
a 6 anni, ma soprattutto la confisca dell’azienda, dei beni strumentali e delle
disponibilità economiche. Queste vanno a confluire nel fondo antitratta dal
quale le vittime possono attingere per i risarcimenti.
All’iniziativa ha partecipato
anche il presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, che nel
maggio scorso nella strada tra Cesarò e San Fratello è stato oggetto di un
agguato mafioso. Come ha detto lo stesso Antoci nei Nebrodi è stato rotto
il giocattolo della gestione dei terreni pubblici e privati per
l’ottenimento dei contributi europei in agricoltura. Un giocattolo che
assicurava ai boss un giro d’affari esorbitante. Tutto a scapito degli
agricoltori onesti dei Nebrodi che, sia perchè intimiditi dall’organizzazione
sia per paura, non presentavano le istanze per ricevere i contributi.
E’ proprio agli imprenditori onesti
che Antoci si è rivolto sostenendo che ognuno di loro deve ritagliarsi il
proprio spazio di responsabilità. “La Sicilia – ha detto – non
ha bisogno nè di simboli nè di eroi, ma di persone normali che fanno il proprio
dovere. Oggi gli imprenditori onesti dei Nebrodi partecipano ai bandi europei.
E’ una cosa che bisogna fare in tutta la Sicilia e in tutta Italia. Insieme”.
IlSicilia.it,
08 marzo 2017
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