GIOIA SGARLATA
Nel 1947 tre del paese fucilati per la brutale uccisione di dieci persone
in Piemonte Poco dopo l’Italia abolì la pena capitale. Oggi i più anziani che
ricordano sentono ancora la ferita aperta
SETTANT’ANNI ieri. Il 4 marzo 1947 segna la data delle ultime condanne
a morte eseguite in Italia. Legati a tre sedie per la fucilazione, alle Basse
di Stura, periferia di Torino, tre uomini di Mezzojuso, gli stessi che un anno,
tre mesi e dodici giorni prima avevano ucciso dieci persone in una cascina di
Villarbasse, a venti chilometri dalla città, dopo un furto di 200mila lire, tre salami,
un po’ di biancheria.
Una data fondamentale per la storia dell’evoluzione penale del nostro Paese
ma anche nella vita dei due comuni coinvolti: Villarbasse, dove la cascina
teatro di quella strage da qualche anno ha riaperto le porte per diventare un
centro di aggregazione, e Mezzojuso colpita nel suo onore e legata a quel
crimine per giorni, mesi, anni.
Sbattuta in prima pagina dalla stampa nazionale. «Una storia che ha fatto
male a tutta la comunità », dice il sindaco Salvatore Giardina, arrivato a
Mezzojuso per amore una ventina d’anni fa. «Ancora oggi — aggiunge — a
settant’anni di distanza, i più anziani che ricordano i fatti hanno ritrosia a
parlarne pubblicamente. Il paese ha provato in tutti i modi a cancellare le
tracce di quell’episodio».
Dei tre uomini fucilati — Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e Giovanni
D’Ignoti — l’unico ceppo familiare ancora esistente è quello di La Barbera. In
paese vivono le figlie e i nipoti del fratello Giuseppe che hanno sempre
condannato quel gesto.
Giuseppe Zito, 47 anni, pasticciere, stesso nome del nonno materno, la
storia l’ha scoperta pian piano. «Avevo 10 anni — racconta — mi capitò per caso
di sentir parlare di quello che era successo mia madre e le mie zie, volti
accigliati e voci basse, e così iniziai a chiedere. Mia madre mi raccontò
l’episodio vagamente, dicendo che si trattava però di un parente lontano. Poi,
quando sono diventato più grande, ho chiesto anche a un mio professore e fu lui
a darmi il libro che racconta l’intera vicenda (“La cascina fatale” di Renzo
Rossotti, ndr). A quel punto chiesi altre notizie al nonno».
Francesco La Barbera era il fratello più piccolo e frequentava brutte
compagnie: contrabbandiere, si era già macchiato dell’omicidio di un suo
compaesano, come confessò prima di essere fucilato. «In famiglia si sapeva
della sua simpatia per Finocchiaro Aprile — racconta Zito — ed è il suo nome
che ha gridato prima di morire». A Torino La Barbera era stato chiamato insieme
con gli altri due mezzojusani condannati a morte con lui da un quarto
componente della banda, considerato la mente e l’unico a essere sfuggito alla
giustizia. Morto «per un regolamento di conti interno alla malavita in
Sicilia», scrissero i giornali: Pietro Lala, il più giovane del gruppo, appena
23 anni.
Un personaggio da romanzo, sul quale realtà e finzione si incrociano ancora
oggi. Già, perché a Torino Lala arrivò col falso nome di Francesco Saporito.
Un’identità inventata dopo che il cadavere di un altro ragazzo cui avevano
sparato in volto con la lupara, era stato identificato come Pietro Lala,
permettendogli di fuggire. Il giornalista brianzolo Ivan Bavuso, in un racconto
(“L’impunito di Villarbasse”), immagina che anche la seconda morte di Lala sia
stata in realtà una messa in scena e che il furto fosse una copertura per
un’operazione avallata dai servizi segreti americani per sottrarre al padrone
della cascina, una sorta di accordo-lasciapassare per Mussolini.
Di certo il clima attorno a Mezzojuso, dopo quel delitto, divenne
pesantissimo. Andrea Gaeta, originario di Termini Imerese e da anni residente a
Roma, lo ricorda benissimo. Nel 1992 andò a Mezzojuso per indagare su uno dei
padri della psichiatria, l’illustre mezzojusano Gabriele Buccola, vissuto nella
seconda metà dell’Ottocento. In quei giorni si era imbattuto anche nei
ricordi degli anziani sugli ultimi condannati a morte d’Italia. Nel suo
racconto, dal titolo “AG2” ( bitnick. it), scrive a proposito: «Nelle
cronache del tempo si parlava spesso di antropologia criminale, di menti
diaboliche, di tabe ereditarie e anche, per uno degli assassini che aveva preso
l’identità di un altro, di gialli romanzeschi alla Mattia Pascal, tirando in ballo
Pirandello oltre a Lombroso».
A raccontargli i fatti dell’epoca era stato Carmelo Bisulca, «considerato
la memoria storica del paese», ricorda oggi. Ma la leggenda di Lula scappato
alla morte per ben due volte aleggia ancora come verità sussurrata. Sul Giornale
di Sicilia del 16 aprile 1946, un mese dopo l’arresto di D’Ignoti e poi
degli altri tre, si racconta del ritrovamento di Lula e dello stato d’animo
degli abitanti per la strage alla cascina Simonetto. «A Mezzojuso — si
legge nell’articolo riportato da Gaeta — si tiene a far sapere e rilevare che
ben altri vincoli, che non siano quelli del delitto e del sangue di dieci
innocenti, devono intercorrere tra Torino e Mezzojuso. Se Mezzojuso infatti ha
dato per caso e per sventura i natali a questa fosca combutta di delinquenti da
tutti ripudiata, ha dato altresì i natali a quel celebre scienziato e umanista
che risponde al nome glorioso di Gabriele Buccola, morto a Torino nel 1885, e
che nella capitale piemontese fu illustre per aver ottenuto con sommo prestigio
la cattedra universitaria».
A essere difficile è anche il contesto storico. Sono gli anni del
Dopoguerra, del bandito Giuliano e delle lotte per il separatismo. «I bambini
se ne stavano in campagna a lavorare e c’era tanta fame», racconta Andrea
Buscarello, 76 anni. Salvatore Mirto, 78 anni, ricorda invece di avere
conosciuto Giovanni Puleo, l’uomo della banda che secondo gli investigatori
colpì a randellate dietro la testa gli ospiti della cascina, tra i quali
quattro donne e un ex partigiano. «Un uomo alto e corpulento che incuteva paura
— dice Mirto — Affittò a me e alla mia famiglia la sua casa in via Archimede».
Ma in pochi hanno voglia di parlare. «Anche se ci sforziamo di pensarla
come un fatto storico — dice Zito — questa vicenda resta una ferita aperta per
tutti. L’unico modo per superarla, credo sia iniziare a dialogare con
Villarbasse. Lo vorrei tanto per i miei figli».
Il sindaco Giardina pensa a un gemellaggio col comune torinese. Ma in
questo settantesimo anniversario a voler voltare pagina sono anche i più
giovani. Rosa Contessa, 24 anni, mezzojusana, si è appena laureata in Scienze
dell’educazione con una tesi sull’evoluzione della procedura penale, partendo
proprio dal caso del 4 marzo 1947. «Fu l’ultima esecuzione per un delitto efferato.
Quel caso ha sconvolto la vita di tutti i mezzojusani onesti: quelli che si
trovavano al Nord e che da quel momento vennero guardati con sospetto e
diffidenza, quelli che rimanevano qui e ai quali arrivava lo smarrimento dei
familiari».
Anche lei è andata alla ricerca dei parenti ancora in vita. Ottenendo altri
ricordi. «Tra i tanti, uno secondo cui Francesco La Barbera, nella terribile
notte del delitto, tornò indietro per tranquillizzare il bambino di due anni,
l’unico risparmiato dall’eccidio, accendendogli la luce perché non avesse
paura». Un’immagine lieve, una sola, contro l’orrore.
La Repubblica Palermo, 5 marzo 2017
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