Giuseppe Puntarello |
di DINO PATERNOSTRO
Giuseppe Puntarello
lavorava come autista della ditta INT. Da diversi anni ormai conduceva l'autobus
che collegava Ventimiglia di Sicilia con Palermo, alternandosi nella guida con
un compagno di lavoro, pure lui di Ventimiglia. Quel 4 dicembre 1945 avrebbe
dovuto essere di turno il suo collega, che però gli chiese di sostituirlo.
Puntarello accettò e all’alba s’incamminò verso l’autorimessa per andare a
prelevare l'autobus dall'autorimessa. Un commando mafioso lo costrinse a
fermarsi per strada e lo uccise con fredda determinazione, sparandogli contro
diversi colpi di lupara. In quei giorni a Ventimiglia si sparse la voce che
l'obiettivo vero dei killer non fosse Puntarello, ma il suo compagno di lavoro.
Fu il classico depistaggio mafioso per confondere le acque. “La verità –
scrivono Alfonso Bugea ed Elio Di Bella, nel libro “Senza Storia” - venne a
galla qualche anno dopo. Puntarello era stato ucciso per il suo impegno di
dirigente della Camera del Lavoro. Si era trattato, insomma, di uno dei tanti
omicidi che in quegli anni la mafia compiva per piegare il movimento contadino
in lotta per le terre”.
A capire
subito la matrice mafiosa del delitto furono la Cgil e i partiti di sinistra.
Già il 5 dicembre 1945 “La Voce della Sicilia” scrisse: “Ieri mattina è stato
assassinato a Ventimiglia, in provincia di Palermo, il compagno Giuseppe
Puntarello, segretario della locale sezione comunista. Già varie volte la
sezione aveva ricevuto minacce dalla maffia del luogo, al soldo del separatismo
agrario, di cui anche il sindaco è un esponente. C’è di più: il maresciallo dei
carabinieri aveva intimato ai nostri compagni la chiusura della sezione minacciando
inoltre il confino ai compagni più in vista. Purtroppo non è la prima volta che
i nostri compagni rimangono vittime della reazione agraria. E quel che è
peggio, le autorità si sono dimostrate sempre incapaci di colpire con la
necessaria energia questi delitti della maffia, questa polizia privata dei
nostri signori feudali, di quella classe che mentre tenta di stroncare con
tutte le armi, dall’assassinio alla calunnia, i movimenti d’avanguardia,
sfratta dalla terra i contadini, nega loro le sementi per rappresaglia
all’applicazione dei decreti Gullo, e sottraendo il grano all’ammasso affama
nello stesso tempo tutto il popolo (…). Attendiamo intanto i provvedimenti
delle autorità: ad esse però ricordiamo che in questi casi non agire con la
massima sollecitudine, oltre che con la necessaria energia, equivale a non
volere agire”.
E, in
effetti, le autorità non vollero agire. Non fu fatta nessuna seria indagine,
nonostante la volontà di collaborare con gli inquirenti manifestata dagli
operai della Federazione Regionale Lavoratori Autotrasporti dell’I.N.T.,
compagni di Giuseppe Puntarello. “I lavoratori dell’I.N.T. - scrive ancora La
Voce della Sicilia del 15 dicembre 1945 - sentendo come un proprio lutto il
lutto della famiglia Puntarello…, si mettono a disposizione delle autorità con
le quali collaboreranno nella ricerca dei colpevoli, perché vogliono che le
indagini siano condotte a fondo e non si fermino agli autori materiali
dell’assassinio, ma colpiscano inesorabilmente tutte quelle forze oscure che
con le vili armi della delinquenza comune e della mafia, a cui si affianca e di
cui si serve la reazione isolana per perpetuare i privilegi feudali della
classe più retriva del nostro paese, gli agrari, s’illude di poter stroncare il
movimento operaio”.
Quando venne
assassinato Giuseppe Puntarello aveva 53 anni. Infatti, era nato a Comitini il
14 agosto del 1892, da Carmelo e da Alfonsa Alaimo. Lasciò la moglie Vincenza
Samperi di 48 anni e 5 figli: Carmelo, Alfonsina, Giuseppe, Matteo e Vincenzo. Il
figlio più piccolo aveva 10 anni, la moglie rimase senza pensione perché allora
non c'era la legge sulla reversibilità. I piccoli furono aiutati dai nonni,
mentre Matteo, che era sordomuto, venne portato in collegio. Il figlio Giuseppe
venne assunto dall’I.N.T. al posto del padre, ma dopo pochi mesi venne
licenziato.
Da Comitini
Giuseppe Puntarello si era stabilito nel 1932 a Ventimiglia di Sicilia, dove
aveva trovato lavoro e una casa in via Garibaldi. Nel 1939 dovette emigrare ad
Asmara, in Eritrea, tornò due anni dopo. Nell'immediato dopoguerra, aderì al Partito
comunista e fondò la Camera del lavoro. Si distinse per il coraggioso impegno
in difesa del movimento contadino di Ventimiglia, in lotta per la terra e per
l’applicazione dei decreti Gullo. “Mio nonno – dice Giuseppe Rizzo, figlio di
Alfonsina – non si volle mai iscrivere al partito fascista. Dopo la guerra, si
adoperò con altri per animare la vita sociale e politica di Ventimiglia,
schierandosi con i braccianti e i contadini poveri, che sognavano un futuro
migliore. Per anni a casa mia non si è mai potuto parlare del suo assassinio,
perché mia nonna e mia madre chiudevano subito il discorso, convincendosi che
era stato ammazzato per sbaglio. Un modo per esorcizzare la paura, per non fare
i conti con la realtà. Sono contento che oggi la Cgil ricordi mio nonno come
dirigente politico e sindacale, ridandogli il posto che merita nella storia”.
Dino Paternostro
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