ATTILIO BOLZONI
Il racconto. I rapporti di Totò con i preti intensi anche nel periodo della latitanza
VOLEVA l’incoronazione in famiglia, in paese e in chiesa. Salvuccio
Riina, il figlio più giovane del capo dei capi di Corleone, voleva diventare
“parrino”. Che in siciliano significa prete ma anche Padrino. In questo caso,
Padrino di battesimo e di cosca. Per Salvuccio, l’unico erede maschio libero della razza dei Riina, per lo
“scrittore” che un anno fa è andato impunemente a “Porta a Porta” per
propagandare le sue verità sul babbo, era un’occasione unica quella di tornare
in Sicilia e religiosamente avvolgersi alla sua comunità. Un abbraccio
naturale: nella tradizione. Dei Riina e della mafia tutta. Nulla c’entra la povera piccola ma tanto c’entra una certa chiesa che ai
Riina è sempre stata vicina in questo e nell’altro secolo. Se sorvoliamo per un
momento sulla vicenda dell’inchino della statua di San Giovanni Evangelista che
nel giugno scorso fece scandalo dopo la “fermata” della processione davanti
alla casa di Ninetta a Corleone in vicolo Scorsone, nella storia dei Riina
troviamo un legame incancellabile con i rappresentanti di Cristo in terra.
Dall’inizio, fin dall’inizio della saga dei Corleonesi.
Totò Riina era già latitante nel 1969 per la guerra di mafia contro il
patriarca Michele Navarra e sua moglie Ninetta, che era stata proposta per il
soggiorno obbligato «per un periodo non inferiore a quattro anni», veniva
difesa dall’arciprete Emanuele Catarinicchia — che poi sarebbe diventato
vescovo di Mazara del Vallo e Cefalù — che era compagno di scuola di Ninetta al
“Sacro Cuore” di Corleone e che lanciò una petizione a favore della donna
presentandosi come testimone a discolpa in Tribunale. Mafie chiesa, chiesa e
mafia. Vi siete mai chiesti perché la Cupola si chiama Cupola?
I Riina, per quanto non avessero mai avuto quarti di nobiltà mafiosa come i
loro avversari palermitani tipo i Bontate di Villagrazia o i Rimi di Alcamo o i
Badalamenti di Cinisi, ci tenevano assai ad avere rapporti con il clero. Chi
sposò Ninetta e Totò, che erano tutti e due già in latitanza, lui inseguito da
mandato di cattura e lei che lo accudiva? Padre Agostino Coppola, parroco di
Carini quando Ninetta era finita da quattro settimane nel bollettino dei
ricercati del ministero dell’Interno. C’erano altri due preti il giorno che
Totò e Ninetta diventarono sposi — il 16 aprile del 1974 — ma nessuno ha mai
scoperto chi fossero. Tutto segreto. Anche se qualche sospetto c’è. Uno sarebbe
stato nominato anni dopo vescovo di Monreale, la curia più estesa e più
ricca della Sicilia. Un vescovado dove Ninetta, quando suo marito era
“nascosto” a Corleone, frequentava. Negli archivi ci sono montagne di
verbali di pedinamento della signora, poliziotti e carabinieri che seguivano
Ninetta che spariva all’improvviso tra i porticati del magnifico Duomo di
Monreale. E dove si nascondeva il padre di Salvuccio durante la sua
infinita latitanza? Probabilmente anche al santuario della Madonna di
Tagliavia, convento fra la Rocca Busambra e Corleone.
Chiesa e mafia, parrini e parrini, società chiuse, dogmi, verità. Una volta
un mafioso (Leonardo Messina da San Cataldo) ha detto: «Noi siamo i discendenti
diretti dell’apostolo Pietro». Un altro pare che avesse sotterrato “la Bibbia
della mafia” nelle campagne di Caltanissetta, fra Riesi e Mazzarino. Un altro
ancora — che era per grazia ricevuta assessore regionale ai Lavori
Pubblici della Sicilia, Vincenzo Lo Giudice — sussurrava al capomandamento
della sua zona: «Io non sono parrino ma la chiesa la rispetto». Non era
“punciuto”, formalmente associato a Cosa Nostra. Però gli piaceva la compagnia.
Che potevamo aspettarci da Salvuccio Riina, residente a Padova ma con la
testa sempre piantata a Corleone? Meno male che monsignor Michele Pennisi,
vescovo di Monreale, fa il prete e non il parrino.
La Repubblica, 2 febbraio 2017
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