Attilio Bolzoni |
di ATTILIO BOLZONI
Alla periferia di Roma, fino a qualche tempo fa, c'era una discoteca dove
lavoravano dieci ragazze romene. Erano le uniche dipendenti, ufficialmente
assunte con un contratto da ballerine da una società che è diventata uno dei
150 mila beni sequestrati alle mafie in Italia. In realtà, ogni notte, quelle
ragazze non si esibivano su un palco ma più intimamente all'ombra dei privé.
Questa storia, che è raccontata nelle pagine dell'ultimo libro – I Tragediatori,
la fine dell'antimafia e il crollo dei suoi miti - dell'ex presidente della
Commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, sollecita istintivamente
una domanda: ma lo Stato, può gestire un bordello?
Materia assai complicata e dibattuta, la questione dei beni sequestrati o confiscati alle mafie rivela come una legislazione contraddittoria e lacunosa non consenta – a parte alcuni esempi virtuosi - di custodire e valorizzare un tesoro che gli esperti stimano intorno ai 30 miliardi di euro. Per non parlare delle aziende che arrivano nella disponibilità dello Stato, quasi sempre svuotate da ogni capacità operativa e inevitabilmente destinate alla bancarotta.
Tante le cause. Un'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni - istituita nel 2010 – che opera senza mezzi e risorse. La lentezza esasperante del passaggio fra sequestri e confische. L'impossibilità dei Comuni e degli altri enti locali, per mancanza di soldi in cassa, di badare ai terreni o ai palazzi loro assegnati. Poi si è anche abbattuta la tempesta sul Tribunale di Palermo, con la conduzione “familiare“ e drammaticamente grottesca del giudice Silvana Saguto e di altri magistrati e amministratori giudiziari.
Un caso estremo, che però ha messo ancora più sott'accusa tutto il sistema. C'è molto da rivedere nella gestione della “roba“ tolta ai boss, superando rigidità e dogmi.
Partendo da un piccolo caso come quello delle ballerine romene, siamo proprio sicuri che per i beni mafiosi la sola soluzione sia quella del loro riutilizzo sociale? E' giusto venderli? O è un pericolo? Di certo, sulle sorti di queste ricchezze, si gioca molto della credibilità dello Stato nella guerra contro le mafie.
Materia assai complicata e dibattuta, la questione dei beni sequestrati o confiscati alle mafie rivela come una legislazione contraddittoria e lacunosa non consenta – a parte alcuni esempi virtuosi - di custodire e valorizzare un tesoro che gli esperti stimano intorno ai 30 miliardi di euro. Per non parlare delle aziende che arrivano nella disponibilità dello Stato, quasi sempre svuotate da ogni capacità operativa e inevitabilmente destinate alla bancarotta.
Tante le cause. Un'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni - istituita nel 2010 – che opera senza mezzi e risorse. La lentezza esasperante del passaggio fra sequestri e confische. L'impossibilità dei Comuni e degli altri enti locali, per mancanza di soldi in cassa, di badare ai terreni o ai palazzi loro assegnati. Poi si è anche abbattuta la tempesta sul Tribunale di Palermo, con la conduzione “familiare“ e drammaticamente grottesca del giudice Silvana Saguto e di altri magistrati e amministratori giudiziari.
Un caso estremo, che però ha messo ancora più sott'accusa tutto il sistema. C'è molto da rivedere nella gestione della “roba“ tolta ai boss, superando rigidità e dogmi.
Partendo da un piccolo caso come quello delle ballerine romene, siamo proprio sicuri che per i beni mafiosi la sola soluzione sia quella del loro riutilizzo sociale? E' giusto venderli? O è un pericolo? Di certo, sulle sorti di queste ricchezze, si gioca molto della credibilità dello Stato nella guerra contro le mafie.
MAFIE (La Repubblica, 1 febbraio 2017)
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