Francesco Forgione |
di Francesco Forgione
La trama fra la dimensione sociale e repressione alle mafie è la
sfida da vincere per superare l’esclusività della dimensione giudiziaria nella
lotta alla mafia e uscire dalla crisi di identità e di credibilità che investe
il movimento antimafia. La confisca e il riutilizzo dei beni mafiosi sono il
terreno sul quale le istituzioni, la magistratura e una pluralità di soggetti
sociali dovrebbero davvero misurare la coerenza delle proprie scelte.
Si tratta di un’immensa ricchezza spesso abbandonata a se stessa: milioni assorbiti dal Fondo unico per la giustizia senza alcuna ricaduta sull’uso e la destinazione dei beni; comuni strangolati dal patto di stabilità impossibilitati a sostenere qualsiasi progetto di riutilizzo o di promozione sociale; istituzioni prima servili verso i mafiosi e di colpo solerti nell’ostacolare le attività economiche sottratte alle mafie; le banche controparti ostruzionistiche delle amministrazioni giudiziarie.
Eppure la redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente è il solo banco di prova per dimostrare la convenienza della legalità. Soprattutto per la gestione delle aziende, con l’affermarsi di un lavoro pulito e redditizio anche in attività nate in un circuito economico-finanziario condizionato dal riciclaggio di capitali mafiosi.
Si tratta di un’immensa ricchezza spesso abbandonata a se stessa: milioni assorbiti dal Fondo unico per la giustizia senza alcuna ricaduta sull’uso e la destinazione dei beni; comuni strangolati dal patto di stabilità impossibilitati a sostenere qualsiasi progetto di riutilizzo o di promozione sociale; istituzioni prima servili verso i mafiosi e di colpo solerti nell’ostacolare le attività economiche sottratte alle mafie; le banche controparti ostruzionistiche delle amministrazioni giudiziarie.
Eppure la redistribuzione della ricchezza accumulata illegalmente è il solo banco di prova per dimostrare la convenienza della legalità. Soprattutto per la gestione delle aziende, con l’affermarsi di un lavoro pulito e redditizio anche in attività nate in un circuito economico-finanziario condizionato dal riciclaggio di capitali mafiosi.
E’ questa la sfida da vincere senza ideologismi e fondamentalismi, ponendo anche fine al tabù della vendita dei beni senza il timore che gli appelli di Saviano e Camilleri blocchino ogni discussione. Pena, il subire l’onta infamante di voler riconsegnare i beni ai mafiosi.
Ci sono beni inutilizzabili. Perché non rivenderli? Ci sono immobili fatiscenti e antieconomici per qualunque progetto di recupero; che farne? E che fare di centinaia di auto, camion, barche di lusso? Ci sono aziende rette su base famigliare, ma appena la “famiglia” viene esclusa dalla gestione (tutta in nero e alimentata da soldi riciclati) non possono sopportare i “costi” legali dei contratti di lavoro e delle forniture esterne al circuito di distribuzione precedente. Si tratta di decine di negozi, ristoranti, alberghi, piccole aziende.
Bisogna essere onesti intellettualmente e discuterne. Lo devono fare anche le associazioni che su questi temi hanno rapporti privilegiati con prefetture e Agenzia. Il silenzio è solo ipocrisia, oppure serve al mantenimento di posizioni lobbistiche funzionali ad orientare progetti, destinazione e assegnazione dei beni.
Il timore dell’accusa di voler riconsegnare i beni alle mafie ha impedito ogni discussione. E così ci si ferma alla propaganda, mantenendo uno status quo che si dice di voler cambiare, a partire dal ruolo dell’Agenzia nazionale che, al di la delle persone, è più un ostacolo che uno strumento per affermare una dimensione socialmente utile della lotta alla mafia.
MAFIE (Repubblica, 1 febbraio 2017
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