Nicolò Miraglia con i suoi contadini durante la "cavalcata" del settembre 1946 |
Al suo funerale
parteciparono in quarantamila, eppure all’epoca, Sciacca, di abitanti ne faceva
ventimila. Per rendere l’ultimo saluto ad Accursio Miraglia, prima vittima di
mafia del dopoguerra, arrivarono da tutte le parti, a piedi o con la mula, in
bicicletta o con la Balilla. Da Roma vennero tanti parlamentari del Pci. Il figlio Nicolò
all’epoca aveva tre e mezzo e per parecchio fu tenuto all’oscuro di tutto.
Soltanto diverso tempo dopo capì, e da allora si riappropriò della memoria del
padre, assassinato da Cosa nostra il 4 gennaio 1947, a cinquantun anni. Oggi
Nicolò, professore di ginnastica in pensione, di primavere sulle spalle ne ha
settantaquattro, e racconta…
Ai funerali
l’indignazione contro Cosa nostra era palpabile. Avevano ucciso una leggenda.
Accursio Miraglia non era solo il personaggio “contro” (contro la mafia, contro
le prepotenze, contro le ingiustizie), era il comunista ed anche il cristiano,
colui che, in anni di indigenza, coniugava la filosofia marxiana con il
pensiero di Gesù Cristo. “Amava la libertà e la solidarietà”, dice Nicolò.
“Considerava gli esseri umani come fratelli. Non faceva differenza fra ricco e
povero, fra comunista e fascista, fra ateo e prete. Si indignava solo di fronte
ai soprusi”.
Coi suoi soldi
fece ristrutturare il vecchio orfanotrofio. Donava mille lire al mese per il
sostentamento di ogni bambino, aiutava i pescatori e i contadini dilapidando
parte del conto in banca. Ecco perché a Sciacca la sua leggenda viene
tramandata di generazione in generazione. Chi ha sensibilità per queste cose
percepisce immediatamente che Miraglia è il simbolo di una Sicilia
straordinaria che a quei tempi giocava una partita fondamentale per il futuro
del Paese: da una parte le armi della civiltà e della democrazia, dall’altra la
lupara e le assoluzioni per insufficienza di prove. A completare l’opera,
l’emigrazione degli anni Cinquanta, quando i migliori figli dell’Isola
abbandonarono la loro terra per cercare altrove un futuro migliore.
Miraglia fu
ucciso da un commando mafioso che gli scaricò una raffica di mitra e dei colpi
di pistola calibro 7,65 mentre, verso le 22,30, rincasava dalla Camera del
lavoro, di cui era responsabile.
A settant’anni
dalla morte, oggi nella sua città è stato ricordato dalla segretaria nazionale
della Cgil Susanna Camusso; quindi il 12 gennaio dal presidente di “Libera” don
Luigi Ciotti, e nei mesi successivi dalla presidente della commissione
parlamentare antimafia Rosi Bindi, e poi, fino al prossimo dicembre, da altri
ospiti prestigiosi.
Miraglia è forse
l’unica vittima di mafia che, da ricco industriale (per giunta con sangue blu
nelle vene; la nonna era la duchessa Tagliavia), si schierò con i contadini per
l’ottenimento delle terre incolte. Lo fece anche da segretario della sezione
locale del partito comunista italiano, proprio lui, capitalista e proprietario
di una fiorente industria conserviera di pesce azzurro che, secondo un’indagine
dei servizi segreti americani, gli diede la possibilità di depositare in banca
la bellezza di quaranta milioni di vecchie lire. Un uomo brillante che a un
certo punto della sua vita sposò una donna bellissima, una parente dello zar di
Russia, Nicola II, che dovette scappare dal suo Paese dopo la rivoluzione di
Lenin.
La sua frase
ricorrente – quando arringava la folla – era questa: “Meglio morire in piedi
che vivere in ginocchio”. L’aveva mutuata da Hemingway, non sapeva che diversi
anni dopo un altro grande rivoluzionario l’avrebbe usata: Ernesto Che Guevara.
I destini che si incrociano, a prescindere dallo spazio e dal tempo.
A Sciacca i più
anziani ricordano una leggendaria occupazione delle terre a cavallo: il 2
ottobre 1946 Miraglia capeggiò una folla di diecimila braccianti. Una eresia.
Lui aristocratico, ricco e altolocato (era anche presidente dell’ospedale e del
teatro Rossi di Sciacca) contro gli aristocratici, i ricchi e gli altolocati
che non volevano saperne di cristianesimo, di marxismo, di rivoluzioni. In
mezzo, i poveri contadini sfruttati come servitori della gleba. Per i padroni
fu uno smacco che non si poteva sopportare. Miraglia doveva sparire dalla
faccia della terra. E sparì tre mesi dopo. Una figura, la sua, che manda in
frantumi il concetto di lotta di classe, perché in fondo la sua storia ci dice
che il rivoluzionario non per forza deve essere proletario.
“Tutti i simboli
dell’antimafia non allineati al volere degli Americani dovevano morire”, dice
oggi Nicolò Miraglia. “Del delitto di mio padre non ricordo niente. Mi dissero
che era una brutta serata, c’era molto freddo, gli amici lo accompagnarono per
un pezzo di strada e poi andarono via. Mentre stava aprendo la porta di casa
arrivò la prima raffica di mitra, lui cercò di entrare e l’assassino lo colpì
ancora con una pistola, il proiettile gli attraversò la carotide e lui morì.
Perché? Bisognerebbe chiederlo ai servizi segreti italiani e americani. La
versione ufficiale ci dice che lui stava portando avanti, mediante la legge
Gullo-Segni, una seria possibilità di dare le terre ai contadini riuniti in
cooperativa. Il motivo fu questo, ma non solo questo. Diciamo che ci fu una
convergenza di interessi”.
“La morte di mio
padre è collegata a due stragi di Stato consumate una dietro l’altra: quella di
Portella della ginestra (1 maggio 1947; undici morti e diversi feriti) e quella
di Partinico (22 giugno 1947; due morti). C’era un piano prestabilito, non
riguardava un solo omicidio. Tutti i sindacalisti di allora, da Accursio
Miraglia a Placido Rizzotto, da Salvatore Carnevale a Epifanio Li Puma,
dovevano cadere per volontà degli americani. Il deputato del Pci, Giuseppe
Montalbano, alcuni anni dopo, ricevette da parte dell’on. Antonio Ramirez
(studioso attento di questi fenomeni) una lettera. Si leggeva: i mandanti e gli
esecutori della strage di Portella della Ginestra sono gli stessi che hanno
assassinato Accursio Miraglia. Dal 4 dicembre del 1947 al 22 giugno 1966 (con
l’assassinio del sindacalista di Tusa, Carmelo Battaglia) un’unica strage di
Stato coinvolge i sindacalisti che hanno lottato per la terra. Tutti questi
omicidi non hanno mai avuto un processo. Dopo la morte di mio padre furono
arrestati gli esecutori materiali, ma la procura generale di Palermo avocò il
caso e liberò gli assassini per insufficienza di prove”.
“Oggi di
Accursio Miraglia resta molto. Morto mio padre, a gestire l’industria restò mia
madre: lei parlava poco l’italiano e non capiva niente di commercio. Furono i
marinai di Sciacca a offrire il miglior pesce alla nostra industria. Si erano
riuniti e avevano deciso: per almeno due anni la vedova Miraglia deve essere
aiutata”.
“Alcuni anni fa
l’Unicredit organizzò l’anniversario: in quella occasione volli ricambiare
offrendo i pranzi e le cene agli ospiti, sia con i prodotti ricavati dai
terreni confiscati alla mafia, sia con il pesce azzurro di Sciacca. A gennaio
non è facile trovare molta quantità di pesce. Allora chiesi alla cooperativa di
marinai di venderci il pescato. Portarono venti cassette. Quando andai in
cooperativa per saldare il conto, la risposta del presidente fu questa: ‘I
marinai di Sciacca per Accursio Miraglia non vogliono mai soldi”.
Una pausa e, per
associazione di idee, la memoria va a settant’anni fa: “Dopo la morte, mio
padre fu portato nella camera ardente dell’ospedale di Sciacca, dove per anni
era stato il presidente. Le suore chiesero di poter tenere la salma per tre
giorni e tre notti per pregare ininterrottamente. Poi, per altri tre giorni, fu
portato nella sala della Camera del lavoro, dove vennero gli uomini politici di
tutta Italia. E quando la bara uscìper essere trasportata al cimitero, tutte le
industrie d’Italia suonarono le sirene. Per dieci minuti gli operai italiani e
siciliani si fermarono per rendergli omaggio”.
tratto da: www.linformazione.eu scrittore: Luciano Mirone
sfondo realizzato da : pagina Facebook "dedicato alle vittime delle mafie"
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