mercoledì, gennaio 04, 2017

Settant’anni fa l’assassinio di una leggenda, Accursio Miraglia

Nicolò Miraglia con i suoi contadini durante
la "cavalcata" del settembre 1946
Al suo funerale parteciparono in quarantamila, eppure all’epoca, Sciacca, di abitanti ne faceva ventimila. Per rendere l’ultimo saluto ad Accursio Miraglia, prima vittima di mafia del dopoguerra, arrivarono da tutte le parti, a piedi o con la mula, in bicicletta o con la Balilla. Da Roma vennero tanti parlamentari del Pci. Il figlio Nicolò all’epoca aveva tre e mezzo e per parecchio fu tenuto all’oscuro di tutto. Soltanto diverso tempo dopo capì, e da allora si riappropriò della memoria del padre, assassinato da Cosa nostra il 4 gennaio 1947, a cinquantun anni. Oggi Nicolò, professore di ginnastica in pensione, di primavere sulle spalle ne ha settantaquattro, e racconta…

Ai funerali l’indignazione contro Cosa nostra era palpabile. Avevano ucciso una leggenda. Accursio Miraglia non era solo il personaggio “contro” (contro la mafia, contro le prepotenze, contro le ingiustizie), era il comunista ed anche il cristiano, colui che, in anni di indigenza, coniugava la filosofia marxiana con il pensiero di Gesù Cristo. “Amava la libertà e la solidarietà”, dice Nicolò. “Considerava gli esseri umani come fratelli. Non faceva differenza fra ricco e povero, fra comunista e fascista, fra ateo e prete. Si indignava solo di fronte ai soprusi”.
Coi suoi soldi fece ristrutturare il vecchio orfanotrofio. Donava mille lire al mese per il sostentamento di ogni bambino, aiutava i pescatori e i contadini dilapidando parte del conto in banca. Ecco perché a Sciacca la sua leggenda viene tramandata di generazione in generazione. Chi ha sensibilità per queste cose percepisce immediatamente che Miraglia è il simbolo di una Sicilia straordinaria che a quei tempi giocava una partita fondamentale per il futuro del Paese: da una parte le armi della civiltà e della democrazia, dall’altra la lupara e le assoluzioni per insufficienza di prove. A completare l’opera, l’emigrazione degli anni Cinquanta, quando i migliori figli dell’Isola abbandonarono la loro terra per cercare altrove un futuro migliore.
Miraglia fu ucciso da un commando mafioso che gli scaricò una raffica di mitra e dei colpi di pistola calibro 7,65 mentre, verso le 22,30, rincasava dalla Camera del lavoro, di cui era responsabile.
A settant’anni dalla morte, oggi nella sua città è stato ricordato dalla segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso; quindi il 12 gennaio dal presidente di “Libera” don Luigi Ciotti, e nei mesi successivi dalla presidente della commissione parlamentare antimafia Rosi Bindi, e poi, fino al prossimo dicembre, da altri ospiti prestigiosi.
Miraglia è forse l’unica vittima di mafia che, da ricco industriale (per giunta con sangue blu nelle vene; la nonna era la duchessa Tagliavia), si schierò con i contadini per l’ottenimento delle terre incolte. Lo fece anche da segretario della sezione locale del partito comunista italiano, proprio lui, capitalista e proprietario di una fiorente industria conserviera di pesce azzurro che, secondo un’indagine dei servizi segreti americani, gli diede la possibilità di depositare in banca la bellezza di quaranta milioni di vecchie lire. Un uomo brillante che a un certo punto della sua vita sposò una donna bellissima, una parente dello zar di Russia, Nicola II, che dovette scappare dal suo Paese dopo la rivoluzione di Lenin.
La sua frase ricorrente – quando arringava la folla – era questa: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. L’aveva mutuata da Hemingway, non sapeva che diversi anni dopo un altro grande rivoluzionario l’avrebbe usata: Ernesto Che Guevara. I destini che si incrociano, a prescindere dallo spazio e dal tempo.
A Sciacca i più anziani ricordano una leggendaria occupazione delle terre a cavallo: il 2 ottobre 1946 Miraglia capeggiò una folla di diecimila braccianti. Una eresia. Lui aristocratico, ricco e altolocato (era anche presidente dell’ospedale e del teatro Rossi di Sciacca) contro gli aristocratici, i ricchi e gli altolocati che non volevano saperne di cristianesimo, di marxismo, di rivoluzioni. In mezzo, i poveri contadini sfruttati come servitori della gleba. Per i padroni fu uno smacco che non si poteva sopportare. Miraglia doveva sparire dalla faccia della terra. E sparì tre mesi dopo. Una figura, la sua, che manda in frantumi il concetto di lotta di classe, perché in fondo la sua storia ci dice che il rivoluzionario non per forza deve essere proletario.
“Tutti i simboli dell’antimafia non allineati al volere degli Americani dovevano morire”, dice oggi Nicolò Miraglia. “Del delitto di mio padre non ricordo niente. Mi dissero che era una brutta serata, c’era molto freddo, gli amici lo accompagnarono per un pezzo di strada e poi andarono via. Mentre stava aprendo la porta di casa arrivò la prima raffica di mitra, lui cercò di entrare e l’assassino lo colpì ancora con una pistola, il proiettile gli attraversò la carotide e lui morì. Perché? Bisognerebbe chiederlo ai servizi segreti italiani e americani. La versione ufficiale ci dice che lui stava portando avanti, mediante la legge Gullo-Segni, una seria possibilità di dare le terre ai contadini riuniti in cooperativa. Il motivo fu questo, ma non solo questo. Diciamo che ci fu una convergenza di interessi”.
“La morte di mio padre è collegata a due stragi di Stato consumate una dietro l’altra: quella di Portella della ginestra (1 maggio 1947; undici morti e diversi feriti) e quella di Partinico (22 giugno 1947; due morti). C’era un piano prestabilito, non riguardava un solo omicidio. Tutti i sindacalisti di allora, da Accursio Miraglia a Placido Rizzotto, da Salvatore Carnevale a Epifanio Li Puma, dovevano cadere per volontà degli americani. Il deputato del Pci, Giuseppe Montalbano, alcuni anni dopo, ricevette da parte dell’on. Antonio Ramirez (studioso attento di questi fenomeni) una lettera. Si leggeva: i mandanti e gli esecutori della strage di Portella della Ginestra sono gli stessi che hanno assassinato Accursio Miraglia. Dal 4 dicembre del 1947 al 22 giugno 1966 (con l’assassinio del sindacalista di Tusa, Carmelo Battaglia) un’unica strage di Stato coinvolge i sindacalisti che hanno lottato per la terra. Tutti questi omicidi non hanno mai avuto un processo. Dopo la morte di mio padre furono arrestati gli esecutori materiali, ma la procura generale di Palermo avocò il caso e liberò gli assassini per insufficienza di prove”.
“Oggi di Accursio Miraglia resta molto. Morto mio padre, a gestire l’industria restò mia madre: lei parlava poco l’italiano e non capiva niente di commercio. Furono i marinai di Sciacca a offrire il miglior pesce alla nostra industria. Si erano riuniti e avevano deciso: per almeno due anni la vedova Miraglia deve essere aiutata”.
“Alcuni anni fa l’Unicredit organizzò l’anniversario: in quella occasione volli ricambiare offrendo i pranzi e le cene agli ospiti, sia con i prodotti ricavati dai terreni confiscati alla mafia, sia con il pesce azzurro di Sciacca. A gennaio non è facile trovare molta quantità di pesce. Allora chiesi alla cooperativa di marinai di venderci il pescato. Portarono venti cassette. Quando andai in cooperativa per saldare il conto, la risposta del presidente fu questa: ‘I marinai di Sciacca per Accursio Miraglia non vogliono mai soldi”.
Una pausa e, per associazione di idee, la memoria va a settant’anni fa: “Dopo la morte, mio padre fu portato nella camera ardente dell’ospedale di Sciacca, dove per anni era stato il presidente. Le suore chiesero di poter tenere la salma per tre giorni e tre notti per pregare ininterrottamente. Poi, per altri tre giorni, fu portato nella sala della Camera del lavoro, dove vennero gli uomini politici di tutta Italia. E quando la bara uscìper essere trasportata al cimitero, tutte le industrie d’Italia suonarono le sirene. Per dieci minuti gli operai italiani e siciliani si fermarono per rendergli omaggio”.

tratto da: www.linformazione.eu scrittore: Luciano Mirone
sfondo realizzato da : pagina Facebook "dedicato alle vittime delle mafie"

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