BARACK OBAMA
CHICAGO. Americani, questa sera tocca a me ringraziarvi. Ogni giorno mi avete
insegnato qualcosa. Mi avete reso un presidente e un uomo migliore.
Sono arrivato qui a Chicago poco più che ventenne, quando ancora cercavo di
capire chi fossi e quale scopo dare alla mia vita. In quartieri poco distanti
da qui ho iniziato a lavorare con i gruppi parrocchiali all’ombra delle
acciaierie chiuse. Qui ho imparato che il cambiamento avviene soltanto quando
persone del tutto normali si lasciano coinvolgere e si uniscono per
pretenderlo. Dopo otto anni da vostro presidente, lo credo ancora. E non è
soltanto il mio convincimento. È il cuore pulsante della nostra idea d’America.
È il convincimento che siamo stati tutti creati uguali, dotati dal Creatore di
diritti inalienabili, tra cui la vita, la libertà e il diritto di aspirare alla
felicità. Questo è il grande dono che i nostri Padri fondatori ci hanno
lasciato.
Se otto anni fa vi avessi detto che l’America avrebbe fatto cambiare rotta
a una grande recessione, avrebbe rilanciato la sua industria dell’auto e
inaugurato il più lungo periodo di creazione di posti di lavoro della nostra
storia… Se vi avessi detto che avremmo dato inizio a un nuovo capitolo di
storia con il popolo cubano, avremmo fermato il programma di armamento nucleare
iraniano senza sparare un solo colpo, ed eliminato la mente dell’11
settembre… Se vi avessi detto che avremmo raggiunto la pari dignità per tutti i
matrimoni e avremmo garantito il diritto all’assistenza sanitaria per altri
venti milioni di nostri concittadini… Avreste potuto dire che stavamo fissando
l’asticella troppo in alto. Eppure, questo è quanto abbiamo realizzato:
l’America oggi è un posto migliore e più forte di quando abbiamo cominciato.
Tra dieci giorni il mondo sarà testimone di un momento chiave della nostra
democrazia. Il trasferimento pacifico del potere da un presidente eletto
liberamente al successivo. Ho promesso al presidente eletto Trump che la mia
amministrazione avrebbe assicurato la transizione più agevole possibile,
come il presidente Bush fece con me.
Lungo tutta la nostra storia ci sono stati vari periodi che hanno rischiato
di mandare in frantumi la solidarietà nazionale: uno di questi è stato l’inizio
di questo secolo. Un mondo sempre più piccolo, diseguaglianze sempre più
grandi, il cambiamento demografico e lo spettro del terrorismo: tutto ciò non
ha messo alla prova soltanto la nostra sicurezza, ma anche la nostra
democrazia.
La nostra democrazia non funzionerà se non prevarrà l’idea che tutti devono
avere le loro opportunità dal punto di vista economico. Oggi l’economia è
tornata a crescere; salari, redditi, valore degli immobili e accantonamenti per
la pensione sono in rialzo; la povertà torna a retrocedere. Tuttavia, sappiamo
che non è ancora abbastanza. Mentre l’uno per cento della popolazione ammassava
ricchezze, troppe famiglie sono state lasciate indietro – l’operaio licenziato,
il cameriere e l’infermiere in difficoltà per i pagamenti delle bollette – e si
sono convinte che il sistema è contro di loro. Questa è una formula che
accresce il cinismo e la polarizzazione nella nostra politica.
Sono d’accordo che i nostri scambi commerciali dovrebbero essere equi, e
non soltanto liberi, ma la prossima ondata di sconvolgimento economico non
arriverà da Oltreoceano, bensì dall’incessante progresso dell’automazione,
che renderà obsoleti molti posti di lavoro del ceto medio.
C’è un secondo pericolo che incombe sulla nostra democrazia, vecchio quanto
la nostra stessa nazione. La razza continua a essere un fattore lacerante nella
nostra società. Se ci rifiuteremo di investire nei figli degli immigrati
soltanto perché non hanno il nostro stesso aspetto fisico, limiteremo le
prospettive di tutti i nostri figli, perché quei ragazzini di colore saranno la
percentuale maggiore della forza lavoro.
Sempre più spesso, ci sentiamo così al sicuro nelle nostre bolle che
accettiamo soltanto le informazioni – vere o false che siano – che collimano
con le nostre opinioni, invece di improntare queste ultime ai fatti reali.
Prendiamo la sfida del cambiamento del clima: possiamo e dobbiamo discutere
qual è l’approccio migliore per risolvere il problema, ma limitarci a negarlo
costituisce un tradimento delle prossime generazioni ma anche di quello spirito
di innovazione e di pratica ricerca di una soluzione ai problemi che guidò i
nostri Padri Fondatori.
Oggi il nostro ordine basato su legalità, diritti umani, libertà di
religione, di parola, di associazione e sull’indipendenza della stampa è
avversato: prima dai fanatici violenti che affermano di parlare a nome
dell’Islam, e più di recente dai despoti di capitali straniere che
considerano i liberi mercati, le democrazie aperte e la stessa società civile
altrettante minacce al loro potere. Il pericolo che ciascuno di loro
rappresenta per la nostra democrazia è di gran lunga maggiore rispetto a quello
di un’autobomba o di un missile.
Cerchiamo di essere vigili, ma non spaventati. Lo Stato Islamico cercherà
di uccidere gente innocente, ma non riuscirà a sconfiggere l’America, a meno di
essere noi stessi, combattendo, a tradire la nostra Costituzione e i nostri
principi. Rivali come la Russia o la Cina non potranno uguagliare la nostra
influenza nel mondo, a meno di essere noi stessi a rinunciare ai valori nei
quali crediamo e a trasformarci in un paese, grande e forte, che come altri si
comporta con prepotenza.
E ciò mi porta al mio punto finale: la nostra democrazia è in pericolo ogni
qualvolta noi la diamo per scontata. La nostra Costituzione è un dono
bellissimo. Ma è semplicemente una pergamena. Non ha potere in sé. Siamo noi,
il popolo, a darle potere. La nostra democrazia ha bisogno di noi, di voi, e
non soltanto quando ci sono le elezioni. Se qualcosa ha bisogno di essere
sistemato, rimboccatevi le maniche e datevi da fare per porvi rimedio. Se siete
delusi dai vostri rappresentanti eletti, candidatevi voi stessi. Fatevi avanti.
Michelle... Michelle LaVaughn Robinson, ragazza di South Side: negli ultimi
25 anni non sei stata soltanto mia moglie e la madre delle mie figlie, ma anche
la mia migliore amica. Hai assunto un ruolo che non avevi chiesto e lo hai
interpretato con grazia, grinta, stile e buonumore. Hai reso la Casa Bianca un
luogo che appartiene a tutti. E la nuova generazione punta il suo sguardo più
in alto perché ha te come modello. Mi hai reso orgoglioso. Hai reso orgoglioso
tutto il paese.
Malia e Sasha, in circostanze così complicate siete diventate due
fantastiche giovani donne. Siete intelligenti e bellissime, ma soprattutto
siete ricche di idee e passione. Avete sopportato con leggerezza il peso di
anni interi trascorsi sotto i riflettori. E di tutte le cose che ho fatto nella
mia vita, quella di cui vado maggiormente fiero è essere vostro padre.
Miei cari americani, servirvi è stato il più grande onore della mia vita.
Non mi fermerò qui: anzi, sarò sempre qui, con voi, da semplice cittadino, per
tutti i giorni che mi rimarranno. Adesso, però, ho un’ultima richiesta da farvi
in qualità di vostro presidente, la stessa che vi feci otto anni fa, quando voi
decideste di darmi una possibilità.
Io vi chiedo di credere: non nella mia capacità di portare il cambiamento,
ma nella vostra. Io vi chiedo di aggrapparvi forte a quella fede scritta nei
documenti fondanti della nostra nazione, a quell’idea sussurrata da schiavi e
abolizionisti, a quello spirito sgorgato dalle voci di immigrati e coloni e
tutti coloro che hanno marciato per la giustizia, a quel credo riaffermato da
chi ha piantato bandiere su campi stranieri di battaglia e sulla Luna; il vero
ideale nel cuore di ogni americano la cui storia non è stata ancora scritta: Yes,
we can. Sì, possiamo farlo. Sì, lo abbiamo fatto. Sì, possiamo farlo.
( Traduzione di Anna Bissanti)
La Repubblica, 12.01.2017
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