Matteo Renzi |
Intervista a Matteo Renzi: brucia la sconfitta, ora
nel Pd facce e identità nuove
EZIO MAURO
SEGRETARIO Renzi,
la sua prima intervista dopo il referendum si può incominciare solo così: che
sventola! Quanto le brucia?
«E deve domandarmelo, non se lo immagina? Brucia, eccome se brucia. Tanto
che il vero dubbio è stato se continuare o lasciare. Ma poi uno ritrova la
voglia e riparte».
Davvero ha pensato di
uscire dalla politica?
«Sì, nei primi giorni. Mi tentava: e devo dirle, un po’ per curiosità, un
po’ per arroganza».
Poi?
«Poi ho pensato che solo il vigliacco scappa nei momenti di difficoltà. Ho
ripensato alle migliaia di lettere ricevute, al desiderio di futuro espresso da
milioni di persone. La nostra battaglia è appena incominciata».
Una rivincita o una
vendetta?
«Nessuna delle due: sono parole che pensano al passato. Noi guardiamo
avanti, non indietro».
Non è anche questo un
modo per scappare dalla sconfitta?
«Se uno nasconde la testa sotto la sabbia e fa finita di niente, sì. Ma
vorrei ricordarle che io mi sono dimesso, in un Paese dove di solito le
dimissioni si annunciano».
Era difficile resistere
dopo aver perso 41 a 59, lo ammette?
«Sarei andato via anche con il 49 per cento. In realtà mi sono dimesso tre
volte».
Perché tre?
«La prima appena usciti risultati, domenica sera. La seconda davanti a
Mattarella, lunedì. Poi il Presidente mi ha chiesto di portare a casa la legge
di bilancio, l’abbiamo fatta in 48 ore. E con 173 voti a favore presi al Senato
mi sono dimesso per la terza volta. Adesso c’è il presidente Gentiloni cui va
tutto il nostro sostegno».
E lei cosa sta facendo?
«Rifletto, leggo, sto in famiglia. Vado al ricevimento professori dei
genitori dei miei figli. Ho ripreso a usare la bici. Riorganizzo la struttura
del partito. Uso gli occhi e le orecchie più che la bocca. C’era tempo solo per
correre, prima. Adesso mi sono fermato: avrei preferito non farlo ma non è così
male».
Ma non ha appena detto
che le brucia?
«Umanamente è una grande lezione, come tutte le sconfitte. Sa cosa mi
spiace soprattutto? Non essere riuscito a far capire quanto fosse importante
per l’Italia questa riforma. Abbiamo perso un’occasione che per decenni non
ricapiterà. Ma nessuno ci toglierà i mille giorni che abbiamo fatto,
straordinari. E soprattutto nessuno può toglierci il futuro. Abbiamo il tempo,
l’energia, la passione per imparare dalla sconfitta e ripartire ».
Improvvisamente lei
parla al plurale dopo una vita politica vissuta al singolare. E’ il momento di
dire “noi”, dopo troppi “io”?
«E’ stato uno dei miei limiti. Ma l’Italia che abbiamo trovato nel 2014,
con il pil al meno due per cento, aveva bisogno di una scossa. Dire io e
metterci la faccia è stato necessario ».
Insomma, “noi” non
riesce a dirlo fino in fondo?
«Sto imparando, vorrei ci provassimo tutti. Vede, il Pd potrebbe vantarsi
di un Jobs act votato dalla sinistra, di unioni civili votate dai cattolici,
della legge sul caporalato e del miliardo e otto stanziato per la povertà,
degli oltre 17 miliardi di recupero dalla lotta all’evasione, dell’abbassamento
delle tasse. Invece i nostri votano in Parlamento, e tacciono nel Paese, anche
sulle cose più positive».
Non starà qui a
snocciolare la propaganda, visto che lo ha fatto ad ogni ora del giorno e della
notte in tv e non le è servito, non le pare?
«Quella che lei chiama propaganda sono riforme che hanno aiutato un pezzo
di Paese a vivere meglio. Non ci hanno fatto vincere? Ok, ma sono fiero di
averle fatte e quei 13 milioni di voti raccolti al referendum sono un
patrimonio di speranza per il futuro».
Alt, lei non può
annettersi quel 41 per cento in automatico: non è un voto politico per Renzi, è
un voto referendario. Diverso, no?
«Diverso quanto vuole. Ma non è che il 59 per cento è un voto politico e il
41 no. O siamo al paradosso per cui Renzi conta solo nei voti contrari e non in
quelli a favore? Il 59 per cento è molto diviso al proprio interno, il 41 no.
Temo che qualcuno faccia i conti senza l’oste».
Vediamo gli errori
dell’oste, prima: qual è stato il più grave?
«Non aver colto il valore politico del referendum. Mi sono illuso che si
votasse su province, Cnel, regioni. Errore clamoroso. In questo clima la parola
riforma è suonata vuota, meccanica, artificiale. Nel 2014 il Paese sapeva di
essere a rischio Grecia, l’efficienza aveva presa, funzionava perché serviva.
Tre anni dopo avrei dovuto metterci più cuore, più valori, più ideali. Insomma,
meno efficienza e più qualità».
Prima diceva che ha
corso troppo, ora aggiunge addirittura che vuole più cuore. In questi tre anni
abbiamo scritto tante volte che lei sostituiva il performer al politico, l’acrobata
al leader. Non tutto è prassi, dunque?
«Un leader è sempre un po’ acrobata, altrimenti vivacchia ma quelli che
vivacchiano non sono leader. Poi talvolta cade, ma preferisco rischiare
piuttosto che vivere nell’immobilismo. Ma se vuole andare più a fondo, ci sto:
ho agito spesso senza riuscire a fare una teoria di quel che facevamo, senza
“ideologizzare” la rotta del governo, senza raccontare la profondità culturale
di quel che proponevamo al Paese. Abbiamo fatto la più grande redistribuzione
di reddito della storia fiscale italiana - gli 80 euro - ma abbiamo accettato
che fosse presentata come una mancia. Ma almeno noi lo abbiamo fatto, dopo anni
di chiacchiere».
Più cultura, dunque, non
solo politique d’abord?
«Se cerca uno slogan ne ho uno migliore: meno slide, più cuore».
E magari meno Giglio Magico,
no? Non crede sia una mancanza di ambizione scegliere i più fedeli a Firenze
invece che i più bravi in Italia?
«Dissento radicalmente: io ho sempre cercato di scegliere i più bravi. Ogni
leader nel mondo ha un gruppo di collaboratori storici, anche del proprio
territorio. E se lei si riferisce a Boschi e Lotti le dico che sono due persone
straordinarie, professionisti eccellenti».
E la Manzione, capo dei
vigili urbani a Firenze che diventa responsabile del dipartimento affari
giuridici di Palazzo Chigi?
«Talmente brava che è stata confermata anche da Gentiloni. Tutto qui questo
mitico Giglio Magico?».
E il suo amico Carrai
candidato per settimane a guidare la cyber security?
«E poi non lo abbiamo nominato. Forse avrebbe fatto comodo la sua
competenza, sa? ».
Ma ci sarà pure un
ufficiale dei carabinieri laureato all’Mit che è altrettanto competente e in
più ha giurato fedeltà alla Repubblica e non a lei, no?
«Adesso ascolti me: all’Eni dopo un lungo colloquio ho nominato De Scalzi,
che non conoscevo, all’Enel Starace che non avevo mai visto, alle Ferrovie
Mazzoncini che non è certo fiorentino, a Finmeccanica Moretti, alla Cdp
Costamagna. Vogliamo parlare delle nomine nelle forze dell’ordine o ai servizi?
Vogliamo discutere di Guerra e Piacentini che hanno accettato di rinunciare a
stipendi milionari per lavorare con me? Vogliamo dire che col mio governo
Fabiola Gianotti è arrivata a dirigere il CERN e Filippo Grandi l’Alto
Commissariato per i rifugiati? Sono orgoglioso di queste scelte, altro che
gigli e magie».
E alla Rai?
«Alla Rai cosa? Ho scelto un capo azienda del mestiere e l’ho lasciato
lavorare».
Ma quel capo azienda lo
ha scelto nel bouquet della Leopolda o sbaglio? E due nomi per lei scomodi come
Berlinguer e Giannini non sono stati sostituiti?
«Non mi pare che partecipare a un convegno alla Leopolda sia un reato.
L’amministratore delegato l’ho scelto per il mestiere, gli ho dato i poteri con
la legge e i soldi con il canone in bolletta. Per il resto sfido chiunque a
dire che ho messo bocca in una sola nomina. L’unica cosa che è veramente figlia
di una mia proposta è stata la cancellazione della pubblicità dalla tv dei
bambini. Sul resto io devo solo cercare il meglio per il futuro delle aziende.
E lo farò anche per il Pd».
Cioè?
«Il Pd deve riflettere: a cosa serve un partito oggi? Come può la sinistra
rispondere alla crisi? Come dobbiamo cambiare? Si guardi in giro: in Francia i
socialisti non stanno benissimo. In Spagna per il Psoe abbiamo visto com’è
finita, in Inghilterra con Corbyn il Labour non vince, in Germania la Merkel va
al 42,9 per cento, superata solo da Adenauer, negli Usa Obama raccoglie
risultati positivi nell’occupazione per 75 mesi e il Paese vota Trump. Non le
dice niente?».
Sta pensando che la
famiglia socialista appartiene al passato?
«Niente affatto, si ricordi che ho portato io il Pd nei socialisti europei,
cosa che quelli di prima non erano riusciti a fare. Anni fa, quando qualcuno mi
consigliava di fare un partito nuovo, ho sempre risposto che se fosse capitato
un giorno di andare a palazzo Chigi un conto sarebbe stato andarci come capo
della sinistra italiana, e tutt’altro conto come un passante che ha vinto alla
lotteria. Io credo che la sinistra possa vincere e convincere. Ma deve entrare
nel nuovo secolo, tenere insieme le tradizioni e il futuro ».
Come?
«Le nuove polarità sono esclusi e inclusi, innovazione e identità, paura e
speranza. Gli esclusi sono la vera nuova faccia delle disuguaglianze, dobbiamo
farli sentire rappresentati. L’identità è ciò che noi siamo, senza muri e
barriere, e non dobbiamo lasciarla alla destra. Quanto all’innovazione, è
indispensabile per non finire ai margini, ma ne ho parlato in termini troppo
entusiastici, bisogna pensare anche ai posti di lavoro che fa saltare. Insomma,
c’è un gran da fare per la sinistra».
E come può farcela un Pd
diviso, negletto, ridotto ai minimi termini?
«Non so di quale Pd parli lei. Quello che conosco io ha preso il 40,8 per
cento alle Europee, miglior risultato di un partito politico in Italia dalla Dc
del 1959. Sono convinto che se il 4 dicembre si fosse votato per i partiti,
saremmo risultati nettamente primi. Certo, adesso c’è da fare. Lanceremo una
nuova classe dirigente, gireremo in lungo e largo l’Italia, scriveremo il
programma dei prossimi cinque anni in modo originale. Siamo ammaccati dal
referendum ma siamo una comunità piena di idee e di gente che va liberata dai
vincoli delle correnti. Ci sarà da divertirsi nei prossimi mesi dalle parti del
Nazareno».
Per questo vuole andare
a votare subito senza far finire la legislatura?
«Mi è assolutamente indifferente. Io non ho fretta, decidiamo quel che
serve all’Italia, senza ansie ma anche senza replicare il 2013 dove abbiamo
pagato un tributo elettorale al senso di responsabilità del Pd. Forse alcuni
parlamentari - specie dei nuovi partiti - sono terrorizzati dalle elezioni
perché sanno che non avrebbero i voti neanche per un’assemblea di condominio.
Ma noi no. Noi faremo ciò che serve al Paese».
Ma lei è sicuro che le
piaccia il mestiere di segretario del Pd ed è sicuro di saperlo fare?
«Vedremo se sarò capace, le rispondo tra qualche mese. Perché me lo chiede? ».
Perché ha dato
l’impressione spesso di usare il partito come un taxi per arrivare a palazzo
Chigi.
«Io credo nel Pd, credo nell’intuizione veltroniana del partito
maggioritario, credo possa essere la spina dorsale del sistema, soprattutto in
un quadro bipolare come piace a me».
Quindi rimane favorevole
al ballottaggio, anche con Grillo in campo?
«Sì, è il modo per evitare inciuci, governissimi, larghe intese tra noi e
Forza Italia che non servono al Paese e aprono un’autostrada al grillini.
Ballottaggio, o se no Mattarellum. Se poi dalla Corte verrà fuori un sistema
diverso ci confronteremo con gli altri. Col maggioritario il Pd è il fulcro di
un sistema simile alla democrazia americana. Con il proporzionale torniamo a un
sistema più simile alla democrazia cristiana. Ma il Pd sarà decisivo comunque.
Il futuro dell’Italia passa da noi, dai nostri sindaci, dalla comunità di
valori della nostra gente. Che non ne può più di chi tutti i giorni spara
contro il quartier generale ».
Scusi, anche a me non piacciono gli inciuci e le large intese, ma si
ricorda che lei ha scelto di governare con Verdini?
«Scelto? Sono io che ricordo a lei che
alle ultime elezioni politiche il Pd – non guidato da me – aveva preso il 25
per cento, non il 40. Senza Verdini lei oggi non avrebbe le unioni civili».
E se nel Pd si preparasse una scissione a sinistra?
«Non mi sembra l’aria. Una parte del
gruppo dirigente ha votato “no” con Lega, Grillo e Berlusconi, ma il 91 per
cento degli elettori del Pd ha votato sì. La scissione la farebbero i parlamentari,
non gli iscritti. Nonostante le leggende nere, abbiamo perso a destra, non tra
i compagni».
Dica ai compagni che non lascerà morire l’Unità: può dirlo?
«Faremo di tutto. Vedrò Staino e gli
editori la settimana prossima. Ma se il giornale vende poco davvero pensiamo
che la colpa sia del segretario del partito? Lavoreremo a una soluzione con
umiltà e buon senso».
Da segretario lei è sembrato credere nell’Anno Zero, nel renzismo,
accontentandosi di rappresentare solo metà partito, non tutto. E’ così?
«Se ho dato questa impressione, ho
sbagliato. Ma non c’è stato giorno senza che una parte della vecchia guardia mi
abbia attaccato, anche in modo sgradevole a livello personale, quasi fosse
stata lesa maestà sconfiggerli al congresso. Perché non dice che sono stato
circondato nel Pd da un vero e proprio pregiudizio, secondo cui non ero degno
di rappresentare la sinistra?».
Lei sente di rappresentarla?
«Certo, secondo la sua storia e le mie
convinzioni. Per me essere di sinistra è anche innovare: essere garantisti
sulla giustizia, abbassare le tasse, non andare necessariamente a rimorchio del
sindacato che contesta ideologicamente i voucher e poi li usa. Lo farò. L’ho
fatto. La battaglia sull’accoglienza agli immigrati in Europa l’abbiamo fatta
noi. E anche quella contro l’austerità come ideologia, non come necessità. Io
ricordo benissimo il primo vertice europeo a Ypres nel giugno 2014, siamo
finiti 2 contro 26 nel voto. Poi la nostra linea ha camminato. Troppo poco? Può
darsi. Risultati parziali? Non c’è dubbio. Ma da dove eravamo partiti?»
Lo dica lei.
«Crede davvero che se non fossimo stati
sul bordo della palude avrebbero dato la guida del governo a uno di 39 anni,
senza quarti di nobiltà e senza padrini politici?».
Non avrà sangue blu, ma ha un’indubbia attrazione per il potere economico e
imprenditoriale: non è eccessivo?
«Rivendico gli incontri con chi salva un
pezzo di produzione industriale in questo Paese. Ma non è vero che cerco solo
gli imprenditori. Vado a Torino vado alla Fiat, certo, dove riparte Mirafiori,
ma vado anche al Cottolengo. Colpa mia se per voi Marchionne fa notizia e don
Andrea no? Dove non mi troverà mai è nei salotti, soprattutto a Roma».
Nelle banche però vi hanno trovati, da Etruria a Mps: non crede che vi sia
costato molto elettoralmente?
«Sì. Ma è una clamorosa menzogna. E non
vedo l’ora che parta la commissione di inchiesta per fare chiarezza sulle vere
responsabilità, dai politici ai manager ai controllori istituzionali».
Ma lei come ha fatto a dire che “Mps è un bell’affare, un brand su cui
investire” mentre andava a rotoli?
«Ho detto in pubblico quel che ho ripetuto
a tutti gli investitori stranieri. Avevamo creato le condizioni per un
investimento estero importante - il fondo del Qatar - che ha detto no il giorno
dopo il referendum per l’instabilità politica. Non ci sarebbe stata operazione
pubblica da venti miliardi con la vittoria sulle riforme».
E perché ha voluto far fuori Viola per far posto a Morelli gradito a Jp
Morgan?
«Sfido chiunque a dimostrare che ho preso
posizione contro Viola o a favore di Morelli. Piuttosto, sulle banche abbiamo
perso con Monti la vera occasione di fare la bad bank come la Merkel. Ci sono
responsabilità politiche decennali. E sul Monte prima o poi qualcuno
racconterà la vera storia, da Banca 121 a Antonveneta. A proposito, vediamo
cosa dirà la commissione di inchiesta sulle popolari venete».
E Etruria quanto vi è costata, col padre della Boschi in Consiglio?
«Molto. Ma abbiamo fatto tutto quello che
andava fatto. Abbiamo commissariato la banca, mandato a casa gli amministratori
compreso il padre della Boschi, Etruria è l’unica banca sanzionata due volte,
ci sono indagini della magistratura e ci saranno processi: vedremo chi sarà
condannato e chi no. Ma noi siamo stati di una trasparenza cristallina. In
tempi di post verità è di bufale virali posso sperare che ci sia ancora
qualcuno che legge le carte e non i tweet preparati in modo scientifico dalla
Casaleggio e associati? Mi colpisce molto che Arezzo e Siena siano tra le poche
città in cui il Sì ha vinto: segno che chi sta sul territorio conosce la verità
e non crede alle rappresentazioni di comodo».
C’è ancora la Consip, i cui dirigenti sono stati avvertiti delle “cimici”
disposte dalla Procura di Napoli e le hanno tolte prima che funzionassero. La
soffiata, dice l’amministratore delegato, viene dal ministro Lotti, dal
comandante dei Carabinieri Del Sette e dal comandante della Toscana
Saltalamacchia. Non è grave? Non è giglio? Non è logico pensare che anche lei
potesse sapere, visto che suo padre ha legami con l’imprenditore Romeo,
indagato nell’inchiesta?
«La mia linea è sempre una sola: bene le
indagini, si vada a sentenza. Noi chiediamo ai giudici di fare presto, sempre.
Abbiamo visto polveroni su Tempa Rossa, Penati, Errani, Graziano e non c’è
stata condanna. Notizie sparate in prima pagina per le richieste e nascoste per
le assoluzioni. Aspetto di vedere la sentenza. Qualcuno ha violato la legge? Si
dimostri con gli articoli del codice penale, non con gli articoli dei giornali.
E chi ha sbagliato, se ha sbagliato, paghi».
C’è un fatto già certo: quelli le cimici le hanno tolte perché qualcuno li
ha avvertiti, e i suoi uomini sono sospettati della soffiata. Non è già questo
gravissimo?
«Mi interessano le sentenze, non i
sospetti. Ovviamente non ho alcun dubbio sulla totale correttezza dei
carabinieri e dei membri del governo in questa vicenda. Ma del resto basta
aspettare per averne certezza».
Nel frattempo, mi scusi, non sarebbe bene che i vostri familiari si
astenessero da affari che riguardano il settore pubblico, per il periodo
temporaneo in cui avete l’onore di guidare la sinistra o il Paese?
«Condivido il principio e non mi risultano
affari di mio padre con il pubblico. Si è preso un avviso di garanzia appena io
sono andato a Palazzo Chigi. Quando è accaduto io sono andato in tv, da
premier, e ho dato solidarietà, ma ai magistrati, non a mio padre. Alla fine è
stato archiviato. Male non fare, paura non avere».
Non crede che il Pd abbia bisogno di aria fresca, troppi indagati, troppi
notabili, troppe compromissioni come denunciava Saviano?
«Il mancato rinnovo della classe dirigente
è stato un mio limite. Saviano lo ha detto con un tono discutibile, ma nel
merito aveva ragione. Non si cambia il Sud poggiando solo sul notabilato. Idee
nuove e amministratori vecchi? Sbagliato, non funziona. Togliere le ecoballe è
importante, ci mancherebbe. Ma più ancora aprire il Pd a facce nuove. Voglio
farlo».
Rimpiange di essere salito a palazzo Chigi dall’ascensore di servizio e non
dallo scalone d’onore, con il voto?
«No. Per la mia immagine è stato un
errore, ma serviva al Paese e l’Italia vale di più della mia immagine. Ma lei
ricorda quei momenti? Eravamo bloccati e impauriti, la disoccupazione cresceva,
il Pil crollava. Ora l’Italia ha qualche diritto in più e qualche tassa in
meno. Ancora non andiamo bene, ma andiamo meglio di prima. Dobbiamo stringere i
denti e fare di più».
Non sente oggi come suona male quella continua polemica coi gufi e i
rosiconi?
«Bisognava dar l’idea della svolta. Forse
non dovevo usare quelle parole, va bene: ma l’ottimismo fa parte della politica.
Detto questo adesso posso confessarlo: a me i gufi stanno simpatici. Gli
animali, intendo».
Grillo punta invece sul catastrofismo: conviene?
«Sì. Lui vince se denuncia il male. Non se
prova a cambiare. Quei ragazzi sono già divisi, si odiano tra gruppi dirigenti,
fanno carte e firme false per farsi la guerra. Ma sono un algoritmo, non un
partito. Lui è il Capo di un sistema che ripete ai seguaci solo quello che
vogliono sentirsi dire, raccogliendo la schiuma dell’onda del web. Dovremmo
fare una colletta per liberare la Raggi e i parlamentari europei dalle orrende
manette incostituzionali che multano l’infedeltà al partito, ogni ribellione o
autonomia. Ma quelli che vedevano la deriva autoritaria nella riforma
costituzionale, su questo tacciono. Se l’immagina una misura del genere nel Pd?
Io non voglio una sinistra dell’algoritmo: la voglio libera, capace di pensare
con la sua testa, coi suoi valori, la sua cultura, i suoi ideali».
Meglio tardi che mai, segretario, la strada è lunga. E se alla fine non
dovesse portarla a palazzo Chigi, se non ci tornasse più?
«Chissà, vedremo. In ogni caso che male
c’è? Ho lasciato il campanello a Paolo e ho visto i miei amici entrare in sala
Consiglio mentre io me ne andavo. Penso che sia giusto così. Quando si perde deve
pagare il capo, non un capro espiatorio a caso. Mentre camminavo sulla guida
rossa, col drappello militare che rendeva gli onori al Capo del governo
uscente, inchinandomi alla bandiera, ho pensato che in questi tre anni ho
cercato di fare il mio dovere con disciplina e onore come dice la Costituzione.
Se torneremo a Chigi, faremo tesoro degli errori e proveremo a fare ancora
meglio. Se non ci torneremo, abbiamo servito il Paese più bello del mondo per
mille giorni. Dica lei: che posso volere di più?».
La
Repubblica, domenica, 15 gennaio 2017
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