La copertina del libro del prof. Visconti |
PIETRO PERCONTI
Il saggio di Visconti cerca di superare il concetto
della presunta specialità del territorio
Monti su un taxi in una città qualunque del mondo e il tipo ti fa: “Where
you can from?”, “From Sicily”, rispondi. “Ah…”, fa il tassista, “mafia!”, con
l’aria compiaciuta di chi pensa: Questa la so!. Ti assale un senso di rabbia
mista a rassegnazione. D’altronde, ciascuno di noi ha un lato simile al
tassista. Mentiremmo a noi stessi se alla domanda: “Cosa ti viene in mente
pensando alla Baviera?”, rispondessimo dicendo: “Una regione prospera e
vivace”, invece che “boccali di birra e paesaggi alpini”.
Le abitudini mentali seguono percorsi immediati segnati da stereotipi e
pregiudizi. D’altra parte, l’identità culturale è un elemento prezioso per la
vita delle persone. E uno si secca a sentirsi identificato con un gruppo di
criminali. L’identità culturale aiuta a sentirsi “a casa”, legittimamente inseriti
nella propria comunità e a proprio agio.
In Sicilia, però, la questione dell’identità culturale è una sorta di mania
collettiva. Registi come Tornatore e scrittori come Camilleri sono noti nel
mondo per la loro rappresentazione della sicilianità. Non c’è niente della
Sicilia nel mondo che abbia tanto successo quanto l’immagine stereotipata della
sicilianità. Coerentemente, verrebbe da dire, gli intellettuali siciliani non
fanno che insistere sull’identità culturale della Sicilia. Fraintendendo
Leonardo Sciascia, si ama dire che la Sicilia è una metafora (di tutto). Ai
forestieri questa storia piace e i siciliani ci lucrano un po’ su. Niente di
male, se si considera il lato, come dire, commerciale della faccenda. Ma, per
il resto, tutto questo insistere sull’identità culturale della Sicilia è
sintomo di arretratezza. Si osservi la vita culturale di Londra, Berlino o New
York e ci si accorgerà che, intenti a disegnare le tendenze dei prossimi decenni,
laggiù non si perde tempo a coltivare l’identità culturale londinese, del
Brandeburgo o newyorkese. Quanto al fatto che la Sicilia possa essere
considerata come una metafora del mondo, sì – in effetti si tratta di un
esercizio immaginativo intrigante, ma funziona anche con la cultura
veneziana o abruzzese.
In questa idea un po’ malsana dell’identità siciliana la mafia ha sempre
giocato un ruolo strategico. Dal momento che la sicilianità, secondo gli
entusiasti dell’identità culturale, sarebbe la caratteristica chiave della
Sicilia, e quest’ultima è niente meno che una metafora della vita, allora anche
essere mafiosi deve voler dire qualcosa di più che essere dei criminali. La
mafia deve essere qualcosa di essenziale per la Sicilia, se contribuisce all’idea
stessa della sicilianità. Ecco perché molti credono che la mafia sia
dappertutto e che sia invincibile. Quando a Palermo c’era un morto ammazzato
quasi ogni giorno, si diceva: ecco la prova della invincibilità della mafia.
Quando, in seguito, la sequenza dei morti ammazzati è finalmente
terminata, è venuta fuori la teoria che il silenzio della mafia era la prova
della sua invincibilità. La mafia c’è, se la vedi; e c’è anche se non la vedi.
La mafia è dappertutto.
Costantino Visconti ha scritto un libro per contrastare questo luogo comune
( La mafia è dappertutto. Falso!, Laterza). Parla di mafia e di
antimafia, ma è anche un modo di superare l’idea che ci sia qualcosa di
speciale nell’identità culturale dei siciliani e che, in ogni caso, la mafia
non vi contribuisce in modo essenziale. Non è quello che molti
dell’intellighènzia siciliana vorrebbero sentirsi dire. Eppure il libro sta
avendo successo, segno che forse siamo pronti per visioni non convenzionali di
ciò che succede in Sicilia. Visconti, che è un professore di diritto penale
esperto proprio nella legislazione antimafia, sostiene che non dovremmo
chiedere al contrasto contro i reati (di mafia) più di quanto esso possa
effettivamente fare. Il modo stesso in cui la legislazione antimafia è stata concepita
risente, tra l’altro, di ciò che Cosa nostra era allora. Man mano che le
organizzazioni criminali mafiose vanno modificandosi, quella legislazione è
destinata a diventare anacronistica. È fuori dal diritto penale che si gioca la
partita, dice il professor Visconti, ma anche lo studente militante nei
movimenti antimafia dagli anni ottanta. Solo quando riusciremo a levarci dalla
testa l’idea che la mafia è come quella luce particolare che ha la Sicilia ogni
volta che atterri a Punta Raisi, che sia dappertutto e silenziosa, solo allora
vedremo che, alla fine dei conti, non si tratta che di un tipo di crimine,
mutevole e con alterne fortune. Ultimamente in disgrazia, grazie alla reazione
dello stato dopo la sfuriata pazzesca dei corleonesi. Sì, è proprio così: non
si sono furbescamente eclissati per garantire con altri mezzi che tutto rimanga
come è sempre stato. Sono semplicemente in galera e le organizzazioni criminali
post-corleonesi hanno preso altre vie, benché altrettanto pericolose.
Privi del loro legame essenziale con la mafia, molti siciliani si sentono
un po’ spaesati. I forestieri ancora di più. Eppure, quella che arriva dal
libro di Visconti è una buona notizia. Solo richiede un piccolo cambiamento di
postura mentale.
La Repubblica Palermo, 7 gennaio 2017
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