di DINO PATERNOSTRO
Una serie di intimidazioni (l’ultima l’11 gennaio) riporta indietro di decenni il Comune in provincia di
Palermo, che lo scorso 12 agosto è stato sciolto per mafia con decreto del presidente della Repubblica. Si rischia di vanificare gli enormi sforzi degli anni passati per scrollarsi di dosso l’inquietante fama di paese di mafia. Ma il sindacato, la buona politica, la società civile organizzata e i cittadini democratici hanno il dovere di non mollare
Nella tarda serata dello scorso
14 dicembre a Ficuzza, borgata di Corleone, sono state date alle fiamme le auto
del capo settore e del capo servizio urbanistica del Comune. La notte tra il 10
e l’11 gennaio un altro incendio ha distrutto la macchina di un giovane
agricoltore di Corleone. L’area di attività dei due dirigenti comunali è
abbastanza “sensibile”. Altrettanto “sensibile” è il settore dell’agricoltura,
dove opera il contadino. Si tratta di intimidazioni? Della punizione per
qualche “sgarro”? Corleone, al di là della facile ironia suggerita dal cartello
all’ingresso della città, che la definisce “capitale mondiale della legalità”,
il 12 agosto 2016 è stato sciolto per mafia con decreto del presidente della
Repubblica. Il sindaco, la giunta e i consiglieri comunali sono stati tutti
mandati a casa, con l’accusa ignominiosa di avere favorito (e/o di non avere
contrastato) l’infiltrazione di Cosa Nostra nella macchina amministrativa.
Un colpo durissimo, che riporta
indietro di decenni un Comune che pure aveva cercato con impegno di
scrollarsi di dosso l’infamante marchio di “città della mafia”. Uno sforzo che,
in qualche modo, era stato coronato dal successo, grazie alla capacità dei suoi
giovani e del sindacato della Cgil, che già negli anni ottanta avevano provato
a riscoprire la memoria storica delle lotte del passato. Quelle lotte che, a
partire dal movimento dei Fasci dei lavoratori del 1892-94, dalle proteste
contadine del biennio rosso 1919-20 e dall’occupazione delle terre del secondo
dopoguerra, avevano contrastato l’arroganza della criminalità organizzata e del
padronato agrario. Grazie in particolare agli uomini che le avevano animate e
guidate (anche loro riscoperti, soprattutto dalle nuove generazioni):
Bernardino Verro, Luciano Nicoletti, Andrea Orlando, Giovanni Zangara, Placido
Rizzotto, tutti – in epoche diverse – assassinati dalla feroce mafia del feudo.
Queste riscoperte sono riuscite
a dare una nuova spinta alle lotte per il lavoro e per i servizi, che hanno preparato la stagione
della “rivoluzione dei sindaci” degli anni novanta. Anche Corleone ha vissuto i
suoi anni di rivoluzione: il 3 giugno 1992 gli 800 bambini della scuola
elementare e le loro maestre sfilarono per le strade cittadine gridando
“Giovanni Falcone non dovevi morire”. Il 19 dicembre dello stesso anno furono i
500 studenti delle superiori a riversarsi in piazza con uno striscione dove
stava scritta la parola “mafia” cancellata con una X e lo slogan “Noi ci stiamo
provando” (a cancellare la mafia…). E la stessa Corleone intitolò la piazza più
grande della città, prima appannaggio di Vittorio Emanuele III, a Falcone e
Borsellino, nonostante le proteste dei mafiosi mascherati (malissimo) da
monarchici. E poi sono arrivate le confische dei beni ai prestanome di Luciano
Liggio, Totò Riina e Bernardo Provenzano; le cooperative antimafia capaci di
dare lavoro “pulito” a tanti giovani e di far conoscere al mondo i prodotti
agricoli ricchi di vitamina “L” (che sta per “legalità”); i campi di lavoro
antimafia, con la presenza di migliaia di giovani volontari da tutt’Italia e di
tanti “diversamente giovani” dello Spi Cgil, per aiutare i soci lavoratori
delle cooperative a coltivare meglio le terre e a vincere la paura dei boss.
Ma Corleone è Sicilia e la
Sicilia è Corleone.
Terra di contraddizioni e di paradossi, dove a volte una cosa diventa il suo
opposto, fino a confondersi e a far confondere. Fino agli anni settanta la
parola mafia e i nomi dei mafiosi erano impronunciabili. Oppure si potevano
pronunciare, ma a bassissima voce e nel chiuso del focolare domestico. Negli
anni novanta furono per primi i giovani corleonesi, sostenuti dalla Cgil e
dalla sinistra politica, a gridare con coraggio che a Corleone c’era la mafia,
ma con essa anche le forze che volevano contrastarla. In questo terzo millennio
le contraddizioni sono diventate tali che la “capitale mondiale della legalità”
ha gli organi istituzionali sciolti per mafia. Una prima cittadina che
professava antimafia a tutte le ore, è stata allontanata dallo Stato con
l’accusa di aver favorito Cosa Nostra, come raccontano le operazioni
giudiziarie “Grande Passo” 1-2-3 (che hanno portato in galera mafiosi e
insospettabili) e le 51 pagine del decreto di scioglimento del Comune, firmato
dal presidente della Repubblica.
Oggi Corleone è amministrata da
una Commissione straordinaria, composta da tre donne “toste”, due vice-prefetto e un’esperta in
materie economico-finanziarie. Stanno provando a disinquinare un Comune che era
stato capace persino di assumere la figlia del capo mandamento di Cosa Nostra,
di “esternalizzare” il servizio di riscossione dei tributi, affidandolo a
un’azienda gestita dal genero del capomafia di Belmonte Mezzagno, di
trasformare l’emergenza-rifiuti in un business in cui “sguazzavano” a loro
piacimento imprese vicine a Riina e Provenzano. La Cgil, che aveva denunciato
molte delle malefatte dell’amministrazione comunale, tanto che il sindaco
“sciolto” per mafia le aveva negato, il 10 marzo dell’anno scorso, l’uso della
piazza in occasione dell’anniversario di Placido Rizzotto, ora ha la necessaria
credibilità per interloquire positivamente con la stessa Commissione
straordinaria. Una credibilità che le ha permesso lo scorso 3 novembre di
celebrare insieme alla giunta commissariata (e con le scuole) il 101°
anniversario dell’assassinio di Bernardino Verro e più recentemente, il 19
dicembre, di sottoscrivere un buon accordo che ha consentito il ritorno al
lavoro degli operai dell’ex Ato rifiuti, licenziati 15 mesi prima.
Ma i problemi sono tanti, a
cominciare dai “buchi” finanziari lasciati dall’amministrazione comunale: quasi 500 mila euro di bollette
dell’energia elettrica non pagate, debiti milionari con l’ex società impegnata
nella raccolta dei rifiuti, decreti ingiuntivi che piovono come grandine. Il
problema più grande resta quello di ricostruire il senso di una comunità capace
di riappropriarsi del proprio destino e di costruire un futuro libero dal
malaffare e dalla mafia. Oggi prevale la sfiducia e un misto di rassegnazione e
di rabbia. Operare per invertire la tendenza è compito della società civile
organizzata. La Cgil la sua parte l’ha fatta e vuole continuare a farla con
grande determinazione. Adesso deve essere anche la politica a non aver paura, a
schierarsi, a prendere posizione anche di fronte a chi pensa che certi conti si
possano regolare bruciando le macchine. Tutti insieme bisogna dire no alla violenza, sottolineando che
nessuno deve permettersi di non rispettare i principi essenziali di legalità
connessi a uno Stato di diritto.
Rassegna sindacale, 16 gennaio 2017
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