La Mehari di Giancarlo Siani |
PAOLO BONACINI
giornalista
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La Mehari verde di Giancarlo Siani, giornalista ucciso a 26 anni
dalla camorra, è il simbolo del “Viaggio legale” che CGIL, Libera e tante altre
sigle della “antimafia sociale” stanno portando in giro per l’Italia. E’ lì,
davanti al palazzo del tribunale di Reggio Emilia, a pochi metri di distanza dalla
grande aula del processo dove alle 9,30 del 19 gennaio il campanello annuncia
l’inizio di un’altra udienza di Aemilia: l’ennesima. E sembra voler ascoltare,
mentre tutti la guardano e la fotografano, cosa diranno i giudici rispondendo
alla istanza presentata due giorni prima da Sergio Bolognino a nome degli
imputati costretti alla carcerazione preventiva. Una richiesta precisa e
argomentata: processo a porte chiuse, fuori i giornalisti. “Siamo stanchi
– dicono in sostanza i detenuti – di leggere e ascoltare articoli e commenti
che raccontano il processo in modo unilaterale, sposando le tesi dell’accusa
senza mai dar voce alla difesa. Così si influenzano in modo scorretto
l’opinione pubblica e soprattutto i testimoni”.
Quando la Mehari sente il giudice Francesco Maria Caruso
dichiarare “Inammissibile per carenza dei presupposti giuridici” la richiesta,
tira un sospiro di sollievo perché sarebbe stato per lei assai imbarazzante
posare per i fotografi in un piazzale reso sordo e muto, privato del diritto
all’informazione e della libertà di parola e d’opinione. Il sospiro di sollievo
diventa poi un marcato sorriso, come solo su certe auto del film Cars avevamo
visto in precedenza, quando il Presidente spiega le ragioni di merito. Che sono
complesse e richiamano in punta di diritto le leggi e la giurisprudenza
italiana ed europea, ma dalle quali emergono tre concetti forti. Tre capisaldi
che rendono felice la Mehari.
Il primo è la “Pietra angolare della Costituzione”, come definisce
Caruso l’art. 21 della nostra Carta Fondamentale, che sancisce il diritto di
libera manifestazione del pensiero attraverso “la parola, lo scritto e ogni
altro mezzo di diffusione”. Aggiungendo che “la stampa non può essere soggetta
ad autorizzazioni o censure”.
Il secondo è la difesa, orgogliosa, delle garanzie di imparzialità
e correttezza offerte a tutti i protagonisti della vicenda giudiziaria
dall’aula del tribunale e dal contraddittorio tra accusa e difesa. Se qualcuno
adombra l’ipotesi che gli articoli di stampa possano condizionare i testimoni e
addirittura i giudici, dice in sostanza, sappia che quest’aula è in grado di
valutare l’attendibilità dei primi e di garantire l’imparzialità dei secondi.
Anche qualora i testimoni venissero influenzati o condizionati da elementi ben
più efficaci e preoccupanti di un articolo di giornale. E il pensieri corre
inevitabilmente alle reticenze, ai “non ricordo”, ai silenzi uditi in aula in
questi mesi, con tanti testimoni intimiditi e visibilmente spaventati dalle
possibili ritorsioni per le proprie parole.
La terza ragione forte del “No” pronunciato dal Collegio richiama
il valore democratico e la trasparenza del dibattimento pubblico. E’ la
migliore garanzia per tutti, a partire dai cittadini che hanno diritto di
sapere e dagli stessi imputati che, la storia e le cronache dal mondo purtroppo
spesso ce lo insegnano, rischiano di patire ingiustizie processuali dietro le
porte chiuse dei tribunali.
La Mehari è soddisfatta e si sposta lentamente verso il vicino
Palahockey, dove centinaia di studenti incontrano il fratello di Giancarlo
Siani, Paolo, che 32 anni fa ha avuto la vita spaccata in due, come sempre
accade a chi perde un famigliare per atti di violenza. C’è un prima e c’è un
dopo, con in mezzo una frattura insanabile:
“Io mi arrabbio ancora tantissimo” dice “nonostante sia passato
tanto tempo”. Perché quando ti ammazzano un fratello con dieci
colpi di pistola alla testa non è che il tempo lenisce le ferite. Paolo Siani
si è avvicinato ai ragazzi nel palasport, ha fatto vibrare la sensibilità che è
in tutti loro parlando col cuore, raccontando di un ragazzo poco più grande
degli studenti che lo ascoltano. Un ragazzo di 26 anni avviato da abusivo alla
difficile carriera del giornalista di cronaca in Campania, che ha avuto la
colpa, per la camorra, di non limitarsi a raccontare solo i fatti, come fanno
normalmente tanti giornalisti, ma di essersi spinto a cercare anche il perché
di quei fatti. E quando la sua ipotesi ha centrato l’obbiettivo (un boss fatto
uccidere a tradimento da altri due) quelli non gliel’hanno perdonata.
“Mi arrabbio ancora tantissimo; e dovete sapere che ci sono voluti
undici lunghi anni per ottenere giustizia e per vedere riconosciuti l’impegno e
il valore di Giancarlo. Perché dopo la morte, come spesso accade, hanno cercato
di infangare il suo nome, di attribuire la fine a fatti di droga o di gelosie.
E il dolore per questi atti di violenza verso la sua memoria è stato intenso
quanto quello per la sua morte”.
La Mehari fa segno di sì, ha capito, e fanno segno di sì anche
tutti gli studenti che ascoltano attentissimi, silenziosi, che partecipano con
tante domande, che sono la speranza per questa nostra terra emiliana di un
domani libero dalle mafie, come tanti ragazzi sono stati la speranza in
Campania in quei luoghi dove l’infestazione della Camorra è stata contrastata e
a volte anche debellata. Per capirlo basta ascoltare un’altra testimonianza nel
palazzetto: la porta Ciro D’Alessio, nato a Torre Annunziata, un passato in
Fiat a Pomigliano, poi salito al nord, venuto a vivere a Reggio Emilia dove
oggi è funzionario Fiom. La sua è una lettera; scritta proprio a Giancarlo, che
ascolta attraverso la Mehari. Dice così:
“Ciao Giancarlo, ti scriviamo questa lettera perché molti di noi sono
cresciuti sentendo il tuo nome ma mai in nessuna occasione ti abbiamo dedicato
quanto meriti.
Siamo tutti nativi di Torre Annunziata, quella dove tu lavoravi.
Molti di noi sono cresciuti nei quartieri che tu attraversavi tutti i giorni in
cerca di notizie, e molti di noi nel crescere hanno associato il tuo nome alla
parole curioso, impiccione, uno che non si fa i fatti suoi. Si perché devi
sapere Giancà che dove siamo cresciuti noi quando qualcuno era troppo curioso o
faceva domande scomode si sentiva rispondere “ ma che, vuoi fare la fine del
giornalista?”.
Allora non ci davamo peso, allora quella domanda ci attraversava
senza lasciare segno, quasi fosse normale, tanto poi alla fine chi era quel
giornalista, chi era quel ragazzo, uno che era morto perché non se ne era stato
al suo posto, uno che faceva domande, uno che aveva osato parlare dei fatti
della camorra andando contro le regole non scritte ma che vigevano tra quei
vicoli. Forse Giancà, senza nemmeno accorgercene dentro di noi ci dicevamo che te
la eri andata a cercare.
Non siamo mai stati dei delinquenti anche quando eravamo a Torre;
arrancavamo per portare pochi soldi a casa in maniera onesta, ma come per la
maggior parte dei nostri concittadini quell’atteggiamento, quel senso di
“normalità” ci rendeva anche se in minima parte complici.
Oggi molti di noi non sono più dei bambini, dei ragazzi, oggi
siamo donne e uomini siamo madri e padri e oggi che siamo cresciuti ripensando
a quegli anni e a quelle parole ci sentiamo un po’ in debito con te.
Non ti abbiamo difeso, non abbiamo riconosciuto quanto tu senza
saperlo hai fatto per noi.
Quelli erano anni difficili per la nostra città, anni dove ogni
giorno contavi un morto ammazzato per le strade, dove ognuno sapeva ma nessuno
parlava, dove davi per scontato la presenza di un cancro che giorno dopo giorno
uccideva il futuro nostro e dei nostri figli ma nonostante tutto e tu eri lì a
fare il tuo lavoro.
Lo facevi senza indossare nè un mantello nè un costume, non volevi
essere un eroe.
Eri solo un ragazzo di 25 anni che voleva guadagnarsi il suo posto
nel mondo dei grandi e armato di tanta determinazione e tanto coraggio non
esitavi a sfidare quello da cui tutti si nascondevano.
Oggi Torre è una città diversa da allora; certo non possiamo dire
che la camorra sia stata sconfitta ma quello che è successo va oltre un arresto
o la chiusura di una piazza di spaccio.
Una volta uno studente ti chiese se c’era speranza e tu
rispondesti a quel giovane parlando all’intera platea “la speranza siete voi”
Ecco Giancà, questo sta succedendo.
I giovani stanno capendo che la camorra fa schifo, oggi molti
giovani sanno che l’omertà, la paura e il voltarsi dall’altra parte sono il
primo passo per consegnare il nostro futuro nelle mani di chi quel futuro vuole
negarcelo.
E questo caro Giancarlo è anche merito tuo.
Tu non lo sai ma a Torre ci sono scuole e strade che portano il
tuo nome.
Nelle scuole si organizzano manifestazioni ed eventi che
raccontano la tua storia e quella delle altre vittime della camorra.
Oggi i giovani conoscono il tuo nome, sanno chi sei e sanno perché
sei morto e quando si parla di te non si parla di uno che è morto perchè non si
faceva i fatti suoi ma si parla di te come di uno che ha dato la vita in nome
di quello in cui credeva.
E questo è tanto Giancà, perché oggi è ancora difficile crescere
fra quei vicoli ma sapere che oltre al guadagno facile, oltre all’omertà, oltre
alla paura, ci sono storie di persone come te, aiuta a scegliere da che parte
stare.
Quindi caro Giancarlo oggi noi vogliamo renderti omaggio, vogliamo
dedicarti questa lettera e condividere, qui dove abbiamo trovato una seconda
casa, dove abbiamo trovato un futuro, in questa comunità che ci ha accolti, il
tuo messaggio.
Grazie di cuore Giancà”.
Piange la Mehari, ma è un pianto liberatorio, che esprime forza e
forse felicità. E poi abbraccia tutti i ragazzi del palasport e tutti coloro,
dai sindaci ai semplici cittadini, che partecipano a questa bellissima
giornata.
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