di GUSTAVO ZAGREBELSKY
CARO Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a
proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la
seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La
“pessima compagnia”, in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo,
anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: “non so se lo farà”, ma “so
che non lo farà”, con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura
cervice. I discorsi “sul merito” della riforma, negli ultimi giorni, hanno
lasciato il posto a quelli sulla “pessima compagnia”. Il merito della riforma,
anche a molti di coloro che dicono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare
alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento
principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi
per ritorcere contro l’altro.
UN TOPOS machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi,
cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo.
Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia
avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano
essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non
è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può
concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un
larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla
Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è
altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse
ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve:
l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa
sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il
riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo “Manifesto”, così spesso
celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca
rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al
largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22
agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti
omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il
più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia
consente limitazioni alla propria sovranità quando — solo quando — siano
necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di
Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che
pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per
promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la
rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio
questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in
mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che
provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo
perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure
si sbracciano a favore della “stabilità”. Che cosa significhi stabilità, lo vediamo
tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle
“destabilizzazioni” — chiamiamoli ricatti — che proprio da loro
provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto
normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che
sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47
articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato
spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì.
L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di
sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali
della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare
l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al
contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della
Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha
bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il
No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non
l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché
considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo di ritornare
su questi temi con lo spirito e lo spazio necessari.
La Repubblica, 2 dic 2016
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