Torino 1969 |
Dal libro "Torino 1969 - Il giorno più lungo, la rivolta di
Corso Traiano" di Diego Giachetti
Sul finire degli anni Sessanta, Torino e i comuni della cintura
hanno una trasformazione profonda. Aspirati dal possente respiro di quel
polmone in espansione produttiva che è la Fiat, migliaia di operai provenienti
dalle regioni meridionali hanno raggiunto la città e i comuni limitrofi. Altri
sempre meridionali emigrati in Germania e in altre nazioni dell'Europa del
Nord, hanno colto l'opportunità di avvicinarsi un poco di più alla famiglia che
hanno lasciato al Sud, e si sono trasferiti a Torino, dove il lavoro non manca.
La grande impresa Fiat, ma anche tantissime fabbriche dell'indotto e le imprese
edili, dopo aver ormai prosciugato da anni il bacino di manodopera costituito
dai contadini delle province piemontesi e dagli immigrati veneti, hanno ancora
bisogno di nuova forza lavoro. Si comincia quindi ad attingere abbondantemente
nel meridione tra popolazioni abituate fin dal secolo precedente a emigrare in
cerca di un lavoro. Questa volta però non si va in Svizzera, Belgio, Francia o,
oltreoceano: si va al Nord, o in continente per gli abitanti delle isole.
Più del 50% degli immigrati che vivono a Torino sono di origine
meridionale e sono soprattutto giovani; il 37 % ha un'età compresa tra i 15 e i
24 anni. Vengono dalla Sicilia (16,4%), dalla Puglia (15,5%), dalla Calabria
(7%), dalla Campania (6,6%), dalla Sardegna (4%), dalla Basilica¬ta (3,7%).
Alcuni dati demografici danno immediatamente un'idea di quanto è
accaduto in termini di aumento della popolazione.
Nel 1951 Torino aveva 700.000 abitanti e la sua prima cintura
qualche migliaio. Nel 1969 gli abitanti della città più quelli della prima e
della seconda cintura ammontano complessivamente a 1.600.000. Quartieri
cittadini tradizionalmente abitati da operai si sovraccaricano in quegli anni
di una massa proletaria senza precedenti. Mirafiori Sud passa dai 18.747
abitanti del 1951 ai. 119.569 del 1969, Lingotto da 23.753 a 42.798, Santa Rita
da 22.936 a 88.563. Nei primi tre mesi del 1969 la popolazione di Torino cresce
di 8.989 unità, di cui 7.103 nuovi immigrati. Nei 23 comuni della cintura in
due mesi la popolazione è aumentata di 3.830 unità, di cui 3.123 nuovi
immigrati.
L'engelsiana questione delle abitazioni si fa esplosiva, la
costruzione di case popolari non riesce a tenere il passo con la domanda di
alloggi da affittare. Similmente agli immigrati extracomunitari odierni,
migliaia di meridionali vivono in condizioni disumane dal punto di vista
igienico e abitativo, nelle soffitte e negli scantinati fatiscenti del centro
storico; taglieggiati da proprietari senza scrupoli, dormono su letti
improvvisati, usati in alcuni casi da più operai, secondo la ripartizione turni
della fabbrica. Altri, in attesa di una sistemazione, dormono in aule vecchie e
sfasciate nei pressi della fabbrica o alla stazione ferroviaria. Chi ha la
fortuna di trovare una casa degna di questo nome paga un affitto elevato
rispetto al salario che guadagna, più di l0 mila lire per vano "dalle 30
alle 40 mila lire per chi ha una famiglia e vive in un appartamento; comunque
non ha modo di difendersi da richieste di aumento di affitto, e vive
nell'incubo di essere sfrattato da un momento all'altro. Chi non ha famiglia o
parenti che lo ospitano mangia come e dove può pastasciutta riscaldata nelle
trattorie, la stessa che si portano in fabbrica nel baracchino per riscaldarla
di nuovo all’ ora di pranzo; alcuni cominciano a scoprire l'esistenza delle
mense universitarie e vi accedono poiché i controlli sono molto allentati in
quanto sono specie di "zone liberate" dal movimento studentesco.
Nell'insieme la città reagisce spesso con fastidio e
incomprensione delle ragioni che sono alla base di questo degrado della vita
sociale e non mancano in quegli anni cartelli con la dicitura "Non si
affitta ai meridionali". La città appare loro ostile e diffidente, non
hanno radici, non ci sono relazioni sociali consolidate, non c'è appartenenza,
non c'è identificazione.
L'impatto con questa città è stato "un disastro",
ricorda Andrea Papaleo, capitato a Torino proprio nel mese di gennaio; a lui,
abituato a vivere "in un paese dove c'era sempre il sole", sembra di
essere arrivato in un altro mondo dove, a causa del freddo, è impossibile
chiacchierare con gli amici per strada e i vetri dei bar appannati gli
trasmettono "un senso di angoscia incredibile". È difficile
adattarsi, gli operai meridionali si sentono incompresi - si lamenta un
pugliese - guardati con sospetto, è per questa ragione che "la gente
meridionale è molto arrabbiata". Trascorrono il loro tempo libero al bar,
molti si sentono soli, non hanno amici, non hanno parenti e conoscenti,
soffrono per
la mutilazione di una separazione violenta tra i sessi, fatta di
miseria e di centinaia di chilometri di distanza [...] senza possibilità
materiale di tro¬vare una compagna
I dipendenti Fiat degli stabilimenti torinesi dai 50.000 che erano
nel 1950 sono diventati 128.000 nel 1968 e 140.000 l'anno seguente; le auto
prodotte per ogni operaio passano dal 2,1 % del 1950 all' 11,8% del 1968, il
numero di vetture prodotte in un anno sale da 118.000 a 1.470.000, circa
seimila al giorno; il fatturato tocca la quota dei 1.330 miliardi rispetto ai
180 dei primissimi anni Cinquanta; gli utili netti nel 1968 ammontano a 34
miliardi e mezzo.
Negli stabilimenti lavora una classe operaia composita, un parte
appartiene ancora al vecchio ceppo dell' operaio di mestiere torinese, la cui
qualifica corrisponde ancora a un saper fare reale che si esercita nel corso
dell'attività lavorativa; altri invece sono lavoratori delle linee di
montaggio, non qualificati, tutti meridionali. Qui la rotazione della
manodopera è abbastanza elevata, il 10% ogni anno lascia la Fiat e cerca un
altro lavoro, circa 1.000 operai al mese si licenziano; su 100 nuovi assunti 40
abbandonano dopo poco. La percentuale degli abbandoni cresce nelle officine
dove il lavoro è più pesante, monotono, ripetitivo.
Per le categorie più elevate il salario arriva fino alle 140 mila
lire; per la stragrande maggioranza dei lavoratori appartenenti alla terza
categoria esso oscilla dalle 100 alle 110 mila lire. Certo chi lavora in Fiat
nominalmente percepisce un salario più elevato rispetto a quello dei
metallurgici di altre province del Piemonte e di altre piccole fabbriche di
Torino, ma è uno stipendio difficilmente raggiungibile, perché solo pochi, a
causa dei ritmi infernali e del carico di lavoro, riescono a lavorare tutti i
giorni del mese. Infatti l'assenteismo ruota attorno al 12-13%, che vuol dire
5-6 mila operai che ogni giorno non si presentano in fabbrica; d'estate la
percentuale tocca anche punte del 25%. Si tratta in media di tre - quattro
giornate di mutua al mese a cui i lavoratori ricorrono per staccare un attimo,
per riposarsi, "per non morire" dicono. Si tratta di lavoratori che
non riescono "a tenere dietro ai ritmi di lavoro massacranti" -
afferma un operaio - che restano "a casa per conservare la propria
esistenza fisica".
All'inizio del 1969 la Fiat ha ancora bisogno di manodopera, per
attivare la nuova fabbrica di Rivalta deve assumere 15 mila operai e nuovamente
l'attinge al Sud mandando i suoi procacciatori di forza-lavoro nei paesi e
nelle città della Campania, della Sicilia e dell' Abruzzo. Arrivano al Nord e
si sistemano, se così si può dire, nei quartieri periferici, nei comuni della
cintura, o nelle topaie del centro storico, aggravando situazioni sociali già
precarie e difficili.
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