Tina Anselmi |
SIMONETTA FIORI
L’addio a Tina Anselmi. Dalla Resistenza alla militanza nella Democrazia cristiana, nelle cui file
fu deputata dal ‘68 al ‘92. Con l’ex presidente della commissione P2 scompare
un simbolo della Repubblica, che respinse i tentativi di insabbiare la verità
sui poteri deviati nello Stato. Mattarella: da lei limpido impegno per la
legalitàLa chiamavano la Tina Vagante, alludendo alla sua integrità esplosiva
rispetto al gioco del potere. Da anni era chiusa nel silenzio dei giusti, il
Parkinson e poi un ictus ne avevano consumato le energie intellettive. Ma in
fondo parla per lei la sua morte, capitata per curioso destino in un duplice
anniversario che ne puntella la biografia politica: il settantesimo del voto
femminile e il quarantesimo d’un ministero assegnato per la prima volta a una
donna. Quella ministra era lei, Tina Anselmi, una vita da primato vissuta con
l’umiltà dei semplici. A scorrere i quasi novant’anni di vita – era nata a Castelfranco Veneto il
25 marzo del 1927 – ci si imbatte solo in una sequenza di primati, come
rileva anche il bel ritratto apparso in un volume del Mulino, Donne della
Repubblica.
Tutte le cose migliori della storia repubblicana portano la firma
dell’Anselmi. Ma la Tina, come la chiamano dalle sue parti, era
antropologicamente immune da qualsiasi vanità. Sorridente, faccia larga, la
femminilità trattenuta, concretezza contadina, il rigore morale di chi sceglie
di stare dalla parte dei più deboli. Per istinto naturale prima ancora che per
coscienza politica. Divenne staffetta partigiana a 16 anni dopo aver assistito
all’impiccagione del fratello d’una sua amica ad opera dei nazifascisti. Dopo
pochi giorni, con il nome in codice di Gabriella, si lancia in sella a una
bicicletta per portare notizie ai resistenti. Ma il carattere della Tina si
rivela il giorno della Liberazione, quando nel buio della piazza punta la pistola
sulle spalle di un uomo scambiato per un repubblichino: era suo padre, uscito
per cercarla nelle ore del coprifuoco. Ne avrebbero riso per il resto
della vita.
Tina la tosta. Tina che non si spaventa davanti a niente, specie se si
tratta di difendere le altre donne. È iscritta a Lettere – alla Cattolica di
Milano – quando comincia la militanza sindacale al fianco delle filandiere e
più tardi delle maestre elementari. Poca teoria e molta pratica: per cominciare
le bastò guardare le dita lessate delle operaie. Agli amici socialisti del
padre preferisce i suoi compagni partigiani cattolici, e le sue stelle polari
se le andrà a cercare dentro la Democrazia Cristiana, tra De Gasperi e
Dossetti, Moro e Zaccagnini. Agli anni della guerra risale anche il suo grande
amore, l’unico, morto precocemente a causa di una malattia. Ma la Tina
preferiva non parlarne, sempre riservata sulla sua solitudine sentimentale.
«No, non ho scelto io, ma è la vita che ha scelto per me», rispondeva alla
biografa Anna Vinci. «Ha scelto la politica». Nel 1946 non può ancora votare,
ma si dà da fare tra le contadine venete perché capiscano l’importanza delle
urne. Negli anni Cinquanta la ritroviamo accanto alla socialista Lina Merlin
contro le case di tolleranza: la difesa delle prostitute le avrebbe attirato
molte critiche. Ma è solo l’inizio, agli attacchi e anche alle bombe si dovrà
abituare col tempo.
In fondo è il destino di chi cambia la storia, o di chi ci prova e in parte
ci rie- sce. Da ministra del Lavoro vara la legge di “parità di
trattamento tra uomini e donne”: una vera rivoluzione per quei tempi, anche se
è rimasta incompiuta. Nel 1978, da titolare del dicastero della Sanità,
partecipa all’istituzione del Servizio sanitario nazionale, una conquista che
oggi viene studiata dagli storici per spiegare il primato italiano di
longevità. Sempre in quell’anno dà prova del suo senso delle istituzioni al di
là di qualsiasi fede religiosa: pur avendo votato in Parlamento contro
l’interruzione di gravidanza, in veste di ministra firma la legge sull’aborto,
resistendo alle fortissime pressioni vaticane.
Non può piacere a tutti, Tina Anselmi. Troppo integra, e anche troppo
attiva. Nel 1980 sfugge a una bomba - forse di mano neofascista - che
fortunatamente non esplode. Solo a una donna del suo temperamento può essere
assegnata nel 1981 la guida della commissione parlamentare d’inchiesta sulla
P2. Prima di accettare, si consulta con il suo amico Leopoldo Elia. Un lavoro
straordinario – 198 persone ascoltate, centinaia di migliaia di carte – per far
luce sul sistema occulto che condiziona la vita nazionale. Il dossier
conclusivo è una meticolosa controstoria d’Italia che denuncia gli intrecci
fangosi tra politica, apparati militari, servizi segreti, finanza, perfino il
Vaticano. «Non è che l’inizio», ammonisce l’Anselmi, che invita ad
approfondire il marcio rivelato dalla loggia massonica. Esortazione lasciata
clamorosamente cadere. Contro la Tina piovvero le accuse di ossessiva
visionarietà, ma a farle più male furono quelle della sua stessa parte
politica. «Io credo che sia ammalata dopo questa storia», confessa la sorella
Maria Teresa a Eliana Di Caro ed Elena Doni, autrici del saggio del Mulino.
Il lavoro sulla P2 non le sarà perdonato. È sotto il governo Berlusconi
che, nel 2004, viene promosso su iniziativa della Prestigiacomo un dizionario
delle donne italiane. La voce “Tina Anselmi” è un’infilata di cattiverie,
«improbabile guerriera», «furbizia contadina», anticipatrice della «futura
demonologia politica, distruttiva e futile». Un attacco quanto mai ingiusto e
sconsiderato.
Quando esce dalla scena politica, dopo essere stata proposta senza successo
per il Quirinale, ritorna nella sua Castelfranco. Può contare su una famiglia
affettuosa, tra molti nipoti e due sorelle che l’hanno seguita fino agli ultimi
giorni, regalandole il meritato dono di morire in casa. Le amiche come la Vinci
- curatrice dei suoi diari segreti sulla P2 - la ricordano ironica, mai
scioccamente nostalgica («non è vero che eravamo meglio noi»), insofferente
alle contorsioni della politica («ma chi l’ha detto che una persona semplice
non sia un buon politico?»), allergica ai narcisismi e all’autoreferenzialità.
Diceva sempre noi, la Tina, mai io. E anche ora, composta con una semplice
veste blu, appare ieratica ed essenziale, come di chi s’accomiata sapendo di
aver fatto la sua parte.
La Repubblica, 2 novembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento