di ATTILIO BOLZONI
Ragusa, in aula va in scena il dramma di Paolo
Borrometi Un pentito rivela: “Titta” Ventura vuole fargliela pagare
RAGUSA. Nemmeno il nome. Nemmeno quel nome deve menzionare. Perché altrimenti «ti
scippo la testa», perché «ti daremo in bocca ciò che meriti», perché «ti
veniamo a prendere ovunque sei». Giornalista stai zitto, lo “zio Titta” non
vuole. Succede in Sicilia, in una provincia molto silenziosa, apparentemente
tranquilla. Un presunto boss — molto presunto, visto che la procura antimafia
di Catania lo indica come capo di una consorteria mafiosa chiamata “Stidda” —
vuole fermare un giovane cronista che è sotto scorta dopo avere subito minacce
di morte, violentissime aggressioni fisiche e attentati incendiari. Solo contro
una una ciurma di miserabili, solo perché tutti gli altri colleghi del suo
territorio- tranne una, Giada Drocker, corrispondente dell’Agenzia Italia —
sembrano non preoccuparsi più di tanto dell’incubo che sta vivendo uno che ha
il vizio di scrivere. In un’aula del Palazzo di Giustizia di Ragusa martedì mattina è andato in
scena il dramma di Paolo Borrometi, cronista del quotidiano online La Spia e
collaboratore anche lui dell’Agi, trentatré anni, l’ultimo vissuto
pericolosamente. Un pentito, che poi è anche il genero del (presunto) capomafia
Gianbattista “Titta” Ventura, ha confermato tutto quello che aveva sentito in
famiglia.
È un ex soldato di Cosa nostra Rosario Avila, che comincia a parlare
da un carcere lontano in videoconferenza: «Ogni volta che Borrometi scriveva,
lui diventava un pazzo criminale, gli uscivano gli occhi di fuori». Il
giornalista raccontava che era un mafioso e Ventura s’infuriava perché non
aveva una condanna definitiva per associazione mafiosa ma «solo» per omicidio,
riportava fedelmente verbali di polizia giudiziaria sui suoi interessi in
un’impresa di pompe funebri («Socio occulto al 50 per cento») e quello buttava
fuoco perché «non era vero», Borrometi tornava a ricordare le gesta del clan e
l’altro lo insidiava sempre di più. Gli faceva arrivare un messaggio su
Facebook per ogni articolo che non gradiva: «Durerai poco cesso di merda»,
«Verme, troppo bordello stai facendo», «Se vuoi ci incontriamo anche negli uffici
di polizia, tanto la testa te la stacco lo stesso». Nell’interrogatorio in
diretta il pentito, dopo qualche piccolo smarrimento — probabilmente la
tragedia di un tradimento anche familiare — ha praticamente confermato la sua
testimonianza ai pubblici ministeri: «Lui quando si arrabbia perde la ragione,
ce l’ha a morte con Borrometi». E alla fine: «È capace di andare oltre, questo
è almeno il mio pensiero».
Nell’Italia dei 30 giornalisti sotto scorta, delle tremila minacce ricevute
e dei 30mila atti intimidatori subiti dal 2006 da chi fa cronaca, il processo
contro lo “ zio Titta” alla sua seconda udienza ha segnato nuovamente la
diserzione in massa dei cronisti locali nonostante la costituzione di parte
civile degli Ordini regionali e nazionali dei giornalisti e della Federazione
nazionale della Stampa. Ed è la prima volta che accade. Con Ossigeno per
l’Informazione e Articolo 21 al fianco di Paolo Borrometi fin dall’inizio di
questa brutta storia, in una città dove tanto tempo fa — il 27 ottobre 1972 — fu
ucciso il corrispondente del quotidiano L’Ora Giovanni Spampinato.
In compenso in aula c’era Gianbattista Ventura, incredibilmente scarcerato
una trentina di giorni fa e oggi agli arresti domiciliari. Con lui una mezza
dozzina di familiari, difesa scontata: Borrometi mente, Borrometi scrive cose
false, Borrometi s’inventa tutto. In realtà Borrometi — che nelle ultime
settimane ha denunciato altri tre avvertimenti («Tu morirai») — è rimasto
incagliato in una trappola dove lo vogliono far passare per visionario e
attaccabrighe, pronto a battibeccare con lo stesso imputato, accusato persino —
e qui è scivolato inconsapevolmente nel raggiro anche il presidente del
collegio giudicante Vincenzo Saito — di avere insultato uno dei figli di
Ventura definendolo “U’ Checcu», il balbuziente. Soprannome, ‘
inciuria come si dice da queste parti, che invece è contenuto in atti
ufficiali.
Troppo facile “sgonfiare” i fatti e ricondurre il movente a una questione
personale fra un siciliano che si chiama Paolo Borrometi e un siciliano che si
chiama Gianbattista Ventura, quella che si sta dibattendo in un’aula di
giustizia di Ragusa non è storia privata né di ripicche né di ossessioni. C’è
un giornalista che scrive e lo “zio Titta” che si disturba tanto.
La Repubblica, 11.11.2016
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