Bob Dylan |
CLINTON HEYLIN
Il 4 febbraio del 1966 iniziò il tour che “cambiò il rock’n’roll per
sempre” Oggi potete riascoltarlo e soprattutto “rileggerlo” nelle testimonianze
di allora
COME MOLTISSIMI FAN TROPPO MALEDETTAMENTE GIOVANI per aver potuto
vivere i concerti del 1966 in tempo reale, il mio primo contatto con il sound
di Dylan & the Hawks di allora fu un album semiclandestino chiamato, a
seconda dei casi, In 1966 There Was, The Royal Albert Hall Concert o Looking
Back. Quella registrazione di un concerto a Manchester (come si è scoperto
poi), pubblicata nella sua interezza nel 1998 come quarta uscita delle “Bootleg
Series” ufficiali della Sony, non era semplicemente incendiaria, sconfinava
nell’anarchia. Gruppi di fan contrapposti vennero quasi alle mani in platea, al
manifestarsi della violenza della musica. Uno studente di sociologia, di nome
Keith Butler, quasi stramazzò per lo choc prima di tirar fuori un’unica parola
“Giuda!”, la sua profetica risposta alla domanda a cui Dylan aveva preparato il
terreno tutta la serata: “How does it feel? Che ve ne sembraaa?”. Uscendo
infuriato dalla sala per assaporare l’aria primaverile, Butler si ritrovò un
microfono sotto il naso e una telecamera portatile puntata in faccia. E di
nuovo quella domanda: che le è sembrato? «È un traditore. Vuole una
sparatoria. Striscia nelle fogne cercando di guadagnarci su».
Era così in tutti i concerti? Dopo tutto erano passati già dieci mesi (e
tanta carta di giornale da distruggere un bosco) da quando Dylan aveva lanciato
le sue nuove sonorità rock, e a un festival di musica folk nel Rhode Island per
di più. Di sicuro la notizia doveva essere arrivata a Manchester. Di certo era
arrivata nella redazione londinese del Melody Maker. Un articolo sul
numero del 30 aprile 1966 del celeberrimo settimanale musicale era intitolato:
«Dylan si porta dietro un suo gruppo: gli farà da spalla per metà di ogni
concerto ». Chiaro, no? Non per tutti.
Le reazioni virulente di quella serata spinsero una giovane Erica Davies a
scrivere una lettera al Melody Maker, la stessa settimana del
concerto di Manchester, «per protestare contro l’atteggiamento di una parte del
pubblico di Dylan. Gridare “traditore” e andarsene perché si è presentato in
scena con una chitarra elettrica è infantile. Queste persone evidentemente
girano con i tappi nelle orecchie, perché negli ultimi due album e sette
singoli di Dylan c’è sempre stata una chitarra elettrica, e si sapeva già da
tempo che si sarebbe portato dietro un gruppo di supporto ». La Davies era
stata al concerto di Cardiff sei giorni prima, uno dei primissimi appuntamenti
di tutto il tour. E anche lì gli avevano gridato “traditore!”.
Evidentemente Manchester non era un caso isolato. Il pubblico rumoreggiava
e si incattiviva sempre di più a ogni concerto, ma l’impeto della musica
travolgeva tutto davanti a sé e in prima linea c’era Dylan, saldo nella
consapevolezza di avere la potenza di fuoco necessaria per spuntarla. Erano
otto mesi che Dylan provava con il gruppo prescelto e riaddestrato
all’uopo, la bar-band di Toronto (Levon and) the Hawks. Dopo che Levon Helm
aveva abbandonato la nave aveva sperimentato sul campo altri due batteristi
prima di optare per Mickey Jones, uno che picchiava duro sui piatti e veniva
dalla band di Johnny Rivers: arrivò giusto in tempo per l’inizio del tour
mondiale a Honolulu, il 9 aprile del 1966. Lo stile “picchiatore” di Mickey
diede il giusto amalgama al tutto. E dal suo punto di osservazione privilegiato
guardò con ammirazione Dylan che tutte le sere, da aprile a maggio, attaccava
la presa della sua chitarra direttamente alla corrente dell’ispirazione.
Mickey Jones: «Nell’intervallo cominciava a caricarsi. Girava dietro le
quinte con la sua chitarra, non vedeva l’ora di uscire sul palco e scatenarsi
(…). A volte eravamo tutti caricati al massimo (…). Il nostro atteggiamento era
“Chi se ne fotte del pubblico” (…).
Man mano che andava avanti il tour, Bob sembrava divertirsi sempre di più.
Appena si metteva in spalla quella Telecaster nera, era pronto a scatenarsi:
saltellava su e giù nei camerini, non vedeva l’ora di salire sul palco. C’è da
dire che a volte non guardava mai il pubblico quando aveva la chitarra
elettrica: suonava per la band, la sua attenzione era concentrata su di noi».
Dovunque fosse concentrata la sua attenzio- ne, di certo Dylan ci metteva
del suo per provocare il pubblico in alcuni concerti, fra cui quello di
Manchester. Rick Saunders, che in quell’occasione faceva parte della sicurezza,
ne era convinto. «Il fatto che ci mettesse così tanto ad accordare gli
strumenti era un atto di sfida. Molto calcolato (…). Qualunque fosse il suo
obiettivo, agiva a una velocità molto diversa da quella di tutti gli altri,
compresa la band». A Manchester gli altri musicisti ormai erano consapevoli che
il loro capitano avrebbe ribaltato qualsiasi animosità reindirizzandola fra il
pubblico. Quel giorno di maggio, Dylan era di umore particolarmente
provocatore. Tutta la fase preparatoria era stata piuttosto agitata: il lungo
viaggio in macchina pieno di curve e tornanti attraverso la brughiera con Tom
Keylock (tuttofare di Dylan, ndr) al volante, dopo una notte quasi
del tutto insonne a Sheffield; un prolungato sound-check per trovare le
sonorità giuste per il tecnico della Columbia che la sera prima aveva fatto un
pasticcio con la registrazione; una litigata con il direttore della sala
concerti quando il manager Al Grossman aveva chiesto di togliere le prime tre
file per far posto alle attrezzature di registrazione ultimo modello; e un
pubblico che già dal primo colpo di stivale sul palco per dare il la alla band
e attaccare Tell Me, Momma aveva cominciato a esprimersi con la
vivacità tipica del Nord dell’Inghilterra.
Per fortuna, Dylan ormai sapeva che catarsi è solo un altro modo per dire
che non hai più nulla da perdere. La cosa curiosa è che Manchester era il
secondo concerto (dopo quello di Londra) a fare il tutto esaurito. Perché la
domanda di Dylan oltremanica non era mai stata così alta. Le vendite erano
andate molto bene anche a Bristol, Cardiff, Birmingham, Liverpool, Leicester,
Sheffield, Glasgow, Edimburgo e Newcastle, le altre tappe in provincia prima di
Parigi e Londra, le due capitali che Dylan aveva messo nel mirino per la
conclusione del tour.
Ma a ogni concerto — come attestano le bobine Nagra incise dal tecnico del
suono Richard Alderson in tutti i concerti di maggio — c’era maretta.
L’ostilità di alcuni settori del pubblico a volte era implacabile quanto la
sfrenata cavalcata di suoni sguinzagliata dagli Hawks, ma non faceva altro che
dimostrare che anche nella musica rock a ogni azione corrisponde una reazione
uguale e contraria. E allora preparatevi a essere presi alla sprovvista — come
fu preso alla sprovvista Dylan — dalla reazione al suo nuovo stile musicale
proprio nel Paese in cui aveva un richiamo commerciale comparabile ai Beatles e
ai Rolling Stones (sia gli uni che gli altri andarono ai concerti londinesi e
li apprezzarono moltissimo). Non che l’uomo nell’occhio del ciclone fosse
disposto ad ammettere che quella reazione tanto virulenta lo avesse ferito.
Lasciò il compito alla sua amica, la cantante blues Dana Gillespie, che alla
fine del tour informò un settimanale di musica inglese.
Dana Gillespie: «È rimasto molto sorpreso dalla reazione del pubblico
inglese. Pensava che l’Inghilterra fosse molto più avanti di qualsiasi altro
Paese nella musica pop e non riusciva a capire perché veniva contestato e
fischiato. La verità è che Bobby ha sempre voluto essere un cantante rock, come
Elvis Presley. Quando ha raggiunto la fama come cantante folk ha pensato che
poteva cambiare strada e farsi accettare anche come cantante rock. Quando gli
spettatori hanno contestato e deriso i suoi pezzi rock a Londra, per irritarli
ha fatto ancora più il rockettaro ».
E non fu solo a Londra che Dylan e la sua band fecero “ancora più i
rockettari” ogni volta che cominciavano i fischi, anche se l’aggressività
verbale di Dylan in quell’ultimo concerto londinese è quella di un uomo allo
stremo, che tenta il tutto per tutto. Per la prima volta, il dramma in multi-cd
di quei concerti europei (e i due concerti australiani registrati direttamente
dal sistema di amplificazione) si dispiega di fronte a orecchie fin qui
inconsapevoli, trasmettendo la netta impressione di ascoltare la storia in
corso d’opera: la reazione del pubblico a ogni concerto sovrapposta a una band
che suona come se ne andasse della propria vita. E non solo la vita, ma la
direzione stessa della musica. Come commentòD. A. Pennebaker ripensando al tour
che fu spedito a documentare: «Quella musica stava generando tutta la musica
altrove. Persone che nemmeno avevano visto quei concerti ne ricevevano
indirettamente qualcosa (…). (Avevano) l’attrattiva carismatica che ha sempre
l’occhio del ciclone».
Dylan aveva deciso di fronteggiare a muso duro la marea montante di
conformismo, almeno da parte dei critici londinesi, che amavano la metà
acustica del concerto e odiavano quella elettrica. Al ventisettesimo pezzo
rispose direttamente alle recensioni di quel mattino, prima di I Don’t
Believe You: «Vi prego di scusarmi: mi rendo conto che è musica rumorosa,
ma se a voi non piace, beh, pazienza. Se avete dei suggerimenti per
migliorarla, ottimo. Ma il punto è che non è musica inglese quella che state
ascoltando (…). Quello che state ascoltando ora è il suono delle canzoni,
nient’altro: prendere o lasciare. A me non importa, dico davvero (…). Se la
pensate diversamente, non mi metterò a litigare con voi (…). Comunque, questo
guarda caso è un pezzo vecchio, intitolato I Don’t Believe You: prima
era in quel modo e ora è in questo modo… e va bene così!». E allora mettetevi
comodi e fate partire il cd; e come disse qualcuno che si trovava vicino a uno
dei microfoni del palco alla Free Trade Hall di Manchester: «Suonatela a tutto
volume!».
( Traduzione di Fabio Galimberti) Il testo, tratto dal libretto che
accompagna il box, è del critico Clinton Heylin, autore, sullo stesso tema, del
libro Judas! From Forest Hills to the Free
Trade Hall
La
Repubblica, 13 nov 2016 Il 4 febbraio del 1966 iniziò il tour che “cambiò il rock’n’roll per
sempre” Oggi potete riascoltarlo e soprattutto “rileggerlo” nelle testimonianze
di allora
Quando Bob Dylan tradì il folk
CLINTON HEYLIN
COME MOLTISSIMI FAN TROPPO MALEDETTAMENTE GIOVANI per aver potuto
vivere i concerti del 1966 in tempo reale, il mio primo contatto con il sound
di Dylan & the Hawks di allora fu un album semiclandestino chiamato, a
seconda dei casi, In 1966 There Was, The Royal Albert Hall Concert o Looking
Back. Quella registrazione di un concerto a Manchester (come si è scoperto
poi), pubblicata nella sua interezza nel 1998 come quarta uscita delle “Bootleg
Series” ufficiali della Sony, non era semplicemente incendiaria, sconfinava
nell’anarchia. Gruppi di fan contrapposti vennero quasi alle mani in platea, al
manifestarsi della violenza della musica. Uno studente di sociologia, di nome
Keith Butler, quasi stramazzò per lo choc prima di tirar fuori un’unica parola
“Giuda!”, la sua profetica risposta alla domanda a cui Dylan aveva preparato il
terreno tutta la serata: “How does it feel? Che ve ne sembraaa?”. Uscendo
infuriato dalla sala per assaporare l’aria primaverile, Butler si ritrovò un
microfono sotto il naso e una telecamera portatile puntata in faccia. E di
nuovo quella domanda: che le è sembrato? «È un traditore. Vuole una
sparatoria. Striscia nelle fogne cercando di guadagnarci su».
Era così in tutti i concerti? Dopo tutto erano passati già dieci mesi (e
tanta carta di giornale da distruggere un bosco) da quando Dylan aveva lanciato
le sue nuove sonorità rock, e a un festival di musica folk nel Rhode Island per
di più. Di sicuro la notizia doveva essere arrivata a Manchester. Di certo era
arrivata nella redazione londinese del Melody Maker. Un articolo sul
numero del 30 aprile 1966 del celeberrimo settimanale musicale era intitolato:
«Dylan si porta dietro un suo gruppo: gli farà da spalla per metà di ogni
concerto ». Chiaro, no? Non per tutti.
Le reazioni virulente di quella serata spinsero una giovane Erica Davies a
scrivere una lettera al Melody Maker, la stessa settimana del
concerto di Manchester, «per protestare contro l’atteggiamento di una parte del
pubblico di Dylan. Gridare “traditore” e andarsene perché si è presentato in
scena con una chitarra elettrica è infantile. Queste persone evidentemente
girano con i tappi nelle orecchie, perché negli ultimi due album e sette
singoli di Dylan c’è sempre stata una chitarra elettrica, e si sapeva già da
tempo che si sarebbe portato dietro un gruppo di supporto ». La Davies era
stata al concerto di Cardiff sei giorni prima, uno dei primissimi appuntamenti
di tutto il tour. E anche lì gli avevano gridato “traditore!”.
Evidentemente Manchester non era un caso isolato. Il pubblico rumoreggiava
e si incattiviva sempre di più a ogni concerto, ma l’impeto della musica
travolgeva tutto davanti a sé e in prima linea c’era Dylan, saldo nella
consapevolezza di avere la potenza di fuoco necessaria per spuntarla. Erano
otto mesi che Dylan provava con il gruppo prescelto e riaddestrato
all’uopo, la bar-band di Toronto (Levon and) the Hawks. Dopo che Levon Helm
aveva abbandonato la nave aveva sperimentato sul campo altri due batteristi
prima di optare per Mickey Jones, uno che picchiava duro sui piatti e veniva
dalla band di Johnny Rivers: arrivò giusto in tempo per l’inizio del tour
mondiale a Honolulu, il 9 aprile del 1966. Lo stile “picchiatore” di Mickey
diede il giusto amalgama al tutto. E dal suo punto di osservazione privilegiato
guardò con ammirazione Dylan che tutte le sere, da aprile a maggio, attaccava
la presa della sua chitarra direttamente alla corrente dell’ispirazione.
Mickey Jones: «Nell’intervallo cominciava a caricarsi. Girava dietro le
quinte con la sua chitarra, non vedeva l’ora di uscire sul palco e scatenarsi
(…). A volte eravamo tutti caricati al massimo (…). Il nostro atteggiamento era
“Chi se ne fotte del pubblico” (…).
Man mano che andava avanti il tour, Bob sembrava divertirsi sempre di più.
Appena si metteva in spalla quella Telecaster nera, era pronto a scatenarsi:
saltellava su e giù nei camerini, non vedeva l’ora di salire sul palco. C’è da
dire che a volte non guardava mai il pubblico quando aveva la chitarra
elettrica: suonava per la band, la sua attenzione era concentrata su di noi».
Dovunque fosse concentrata la sua attenzio- ne, di certo Dylan ci metteva
del suo per provocare il pubblico in alcuni concerti, fra cui quello di
Manchester. Rick Saunders, che in quell’occasione faceva parte della sicurezza,
ne era convinto. «Il fatto che ci mettesse così tanto ad accordare gli
strumenti era un atto di sfida. Molto calcolato (…). Qualunque fosse il suo
obiettivo, agiva a una velocità molto diversa da quella di tutti gli altri,
compresa la band». A Manchester gli altri musicisti ormai erano consapevoli che
il loro capitano avrebbe ribaltato qualsiasi animosità reindirizzandola fra il
pubblico. Quel giorno di maggio, Dylan era di umore particolarmente
provocatore. Tutta la fase preparatoria era stata piuttosto agitata: il lungo
viaggio in macchina pieno di curve e tornanti attraverso la brughiera con Tom
Keylock (tuttofare di Dylan, ndr) al volante, dopo una notte quasi
del tutto insonne a Sheffield; un prolungato sound-check per trovare le
sonorità giuste per il tecnico della Columbia che la sera prima aveva fatto un
pasticcio con la registrazione; una litigata con il direttore della sala
concerti quando il manager Al Grossman aveva chiesto di togliere le prime tre
file per far posto alle attrezzature di registrazione ultimo modello; e un
pubblico che già dal primo colpo di stivale sul palco per dare il la alla band
e attaccare Tell Me, Momma aveva cominciato a esprimersi con la
vivacità tipica del Nord dell’Inghilterra.
Per fortuna, Dylan ormai sapeva che catarsi è solo un altro modo per dire
che non hai più nulla da perdere. La cosa curiosa è che Manchester era il
secondo concerto (dopo quello di Londra) a fare il tutto esaurito. Perché la
domanda di Dylan oltremanica non era mai stata così alta. Le vendite erano
andate molto bene anche a Bristol, Cardiff, Birmingham, Liverpool, Leicester,
Sheffield, Glasgow, Edimburgo e Newcastle, le altre tappe in provincia prima di
Parigi e Londra, le due capitali che Dylan aveva messo nel mirino per la
conclusione del tour.
Ma a ogni concerto — come attestano le bobine Nagra incise dal tecnico del
suono Richard Alderson in tutti i concerti di maggio — c’era maretta.
L’ostilità di alcuni settori del pubblico a volte era implacabile quanto la
sfrenata cavalcata di suoni sguinzagliata dagli Hawks, ma non faceva altro che
dimostrare che anche nella musica rock a ogni azione corrisponde una reazione
uguale e contraria. E allora preparatevi a essere presi alla sprovvista — come
fu preso alla sprovvista Dylan — dalla reazione al suo nuovo stile musicale
proprio nel Paese in cui aveva un richiamo commerciale comparabile ai Beatles e
ai Rolling Stones (sia gli uni che gli altri andarono ai concerti londinesi e
li apprezzarono moltissimo). Non che l’uomo nell’occhio del ciclone fosse
disposto ad ammettere che quella reazione tanto virulenta lo avesse ferito.
Lasciò il compito alla sua amica, la cantante blues Dana Gillespie, che alla
fine del tour informò un settimanale di musica inglese.
Dana Gillespie: «È rimasto molto sorpreso dalla reazione del pubblico
inglese. Pensava che l’Inghilterra fosse molto più avanti di qualsiasi altro
Paese nella musica pop e non riusciva a capire perché veniva contestato e
fischiato. La verità è che Bobby ha sempre voluto essere un cantante rock, come
Elvis Presley. Quando ha raggiunto la fama come cantante folk ha pensato che
poteva cambiare strada e farsi accettare anche come cantante rock. Quando gli
spettatori hanno contestato e deriso i suoi pezzi rock a Londra, per irritarli
ha fatto ancora più il rockettaro ».
E non fu solo a Londra che Dylan e la sua band fecero “ancora più i
rockettari” ogni volta che cominciavano i fischi, anche se l’aggressività
verbale di Dylan in quell’ultimo concerto londinese è quella di un uomo allo
stremo, che tenta il tutto per tutto. Per la prima volta, il dramma in multi-cd
di quei concerti europei (e i due concerti australiani registrati direttamente
dal sistema di amplificazione) si dispiega di fronte a orecchie fin qui
inconsapevoli, trasmettendo la netta impressione di ascoltare la storia in
corso d’opera: la reazione del pubblico a ogni concerto sovrapposta a una band
che suona come se ne andasse della propria vita. E non solo la vita, ma la
direzione stessa della musica. Come commentòD. A. Pennebaker ripensando al tour
che fu spedito a documentare: «Quella musica stava generando tutta la musica
altrove. Persone che nemmeno avevano visto quei concerti ne ricevevano
indirettamente qualcosa (…). (Avevano) l’attrattiva carismatica che ha sempre
l’occhio del ciclone».
Dylan aveva deciso di fronteggiare a muso duro la marea montante di
conformismo, almeno da parte dei critici londinesi, che amavano la metà
acustica del concerto e odiavano quella elettrica. Al ventisettesimo pezzo
rispose direttamente alle recensioni di quel mattino, prima di I Don’t
Believe You: «Vi prego di scusarmi: mi rendo conto che è musica rumorosa,
ma se a voi non piace, beh, pazienza. Se avete dei suggerimenti per
migliorarla, ottimo. Ma il punto è che non è musica inglese quella che state
ascoltando (…). Quello che state ascoltando ora è il suono delle canzoni,
nient’altro: prendere o lasciare. A me non importa, dico davvero (…). Se la
pensate diversamente, non mi metterò a litigare con voi (…). Comunque, questo
guarda caso è un pezzo vecchio, intitolato I Don’t Believe You: prima
era in quel modo e ora è in questo modo… e va bene così!». E allora mettetevi
comodi e fate partire il cd; e come disse qualcuno che si trovava vicino a uno
dei microfoni del palco alla Free Trade Hall di Manchester: «Suonatela a tutto
volume!».
(Traduzione di Fabio Galimberti) Il testo, tratto dal libretto che
accompagna il box, è del critico Clinton Heylin, autore, sullo stesso tema, del
libro Judas! From Forest Hills to the Free
Trade Hall)
La
Repubblica, 13 nov 2016
Nessun commento:
Posta un commento