Fidel Castro |
di LIA DE FEO
Io non
ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in
Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e
mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché
i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano,
che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi
logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove
tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e
vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola
risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che
cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte
su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo
il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era
normale e non si aspettava di essere pagata anche solo
per rispondere a un “buongiorno”.
E dove, perdonatemi, mangiavo:
un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo
di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di
trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato
scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia
spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare
un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un
supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di
un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non
riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.
Eppure,
Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che
ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema
elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni ’50 dopo un
bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a
intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti,
tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori
trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il
tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano
bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo
squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la
severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto
bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi
tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé.
Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si
sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo
aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro
presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li
strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li
hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è
tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di
nessuno.
E’ difficile, per una come me, arrivare all’aeroporto praticamente in fuga,
pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con
odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci
dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del
mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio
ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si
aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in
barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a
Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con
indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba
invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai
più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non
sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per
l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene.
Cuba mette a fuoco altro da te.
L’Europa,
in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di
Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu.
Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali
perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura
cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio
gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce
come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista
en su versión más hostil.” La definizione è di EcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io
stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule
universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora,
gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo
che gli pare. E pure gli stranieri.
Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possono fare, a
Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata
propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi
camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.”
I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo
che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi
della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che
fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate
abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne
parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la
questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime
idee. C’è chi ama (amava, gesù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione
e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo.
Perché,
di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di
quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco,
sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono
isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può
pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché
sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono
guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla
famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo,
i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che
inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e
a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per
l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose
come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione
come “proteinas para el pueblo“.
Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine,
carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli
attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine,
ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono
sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in
Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio
venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di
petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché
odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio
dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi
professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni
genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e
non l’ho capito. Ma ce la fanno.
Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride,
per dire. Sono finiti gli anni ’70, “Fresa y chocolate”
fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una
pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi
colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di
due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero
stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni
cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né
belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito
all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello.
Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha
neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e
grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere
molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.
Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di
buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente
stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che
non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una
lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o,
semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e
normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi
collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille
volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso
non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E
più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con
la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi,
come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si
ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a
un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si
percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani
da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro
padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori
dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono,
dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli.
Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è
meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che
non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio.
Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più
azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo,
è ovvio.
Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li
detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in
fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza,
una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in
Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi
a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o
nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba,
gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!”
Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e
spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni,
che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano
anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono
guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto.
E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di
vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare
trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a
ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in
cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di
tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la
normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli
pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA.
Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di
rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara
la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è
proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che
dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.”
Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba.
Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole
essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.
Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo,
probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”.
Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha
preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro
gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne
presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la
“cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e
africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente
subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato
dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di
africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie
e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e
schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non
si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se
l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto,
nel nome della lotta per l’indipendenza.
Cuba è
giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a
Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non
sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non
ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una
faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi
cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita,
in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun
dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi,
ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno
cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante.
Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898.
Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare
tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno
dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono
presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a
un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda
Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.
Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi
si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione
fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille
governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino
il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli
mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il
gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di
oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è
talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e
documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”,
credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben
prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il
perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello
piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito
malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di
sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante.
E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e
non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in
Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola
all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista
che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a
memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo
sicuro.” E vince. Sul serio. E,
per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo,
è stato il punto.
E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli
USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa
circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si
è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo
praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere
dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le
carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro,
riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita,
la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è
strano. Ma strano forte.
Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite.
I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di
comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno
sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno
fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla
pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto
essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque
pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando
fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli
USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero
avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E
come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi
cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite,
l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no,
francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E,
conoscendoli, non era difficile da capire.
Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba,
e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di
ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio
all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle
proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine
degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col
visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata
sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani
che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza,
visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra
incredibile.
Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio
necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare,
sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se
li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa
parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e
direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra
e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è
guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche,
grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato
contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non
si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto,
molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di
meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto
Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per
potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi
dire.
Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel
potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa
proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento
penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di
oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile
che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso,
di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà,
educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per
eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.
Lascia
un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta.
Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto
cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le
differenze razziali, dagli anni Novanta in poi, si sono accentuate. Da quando
le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei
cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie
bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola
impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il
turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto
un gran male.
Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche
stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il
paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se
Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono
degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se
solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi,
hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del
Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più
vario e più vero.
Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano
tutti i motivi.
Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo
vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha
aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.
Pubblicato
da Qualcosa di Sinistra in Mondo, Parola
d'Autore 28 novembre 2016
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