Il magistrato Antonino Di Matteo |
Il magistrato simbolo del processo sulla trattativa Stato-mafia, ieri a
Palermo, ha ribadito le ragioni della sua opposizione alla riforma
costituzionale: “Rappresenta una svolta autoritaria che limita i poteri dei
cittadini e risponde ai dettami dei poteri finanziari”. Senza dimenticare che
questa idea di Stato già la sognava la P2…
“Questa riforma si muove su un percorso di sostanziale restaurazione perché con
lo sbilanciamento dei poteri a favore dell’esecutivo rappresenta una svolta
autoritaria”. Torna a parlare in pubblico Nino Di Matteo, il magistrato
palermitano simbolo del processo sulla trattativa Stato-mafia e lo fa in
occasione de “Le nostre ragioni del no”, dibattito organizzato
dal segretario regionale della Cgil Michele Pagliaro e da Carlo Smuraglia,
presidente nazionale dell’Anpi dinnanzi ad una platea di studenti. Il
magistrato aveva esposto le sue ragioni in favore del No al referendum nel corso di una
iniziativa a Villa Filippina qualche settimana fa, e ieri
ha ribadito i punti salienti del suo ragionamento.
“Quando si parla di Costituzione, non possono prevalere criteri di
opportunità legati dalla necessità di appoggiare, ad esempio, un governo in
carica”. In altre parole, non si può appoggiare questa riforma solo per
consentire al Governo Renzi di sopravvivere, né per consentire al PD di
rafforzare il suo potere, perché in ballo ci sono valori fondamentali per tutti
i cittadini italiani. Anzi a volerla dire tutta, i Governi dovrebbero
proprio rimanere fuori da ogni proposta di riforma costituzionale, perché sono
di parte per antonomasia. Concetto espresso, ad esempio, da Pietro Calamandrei
che Di Matteo ha citato letteralmente leggendo un passaggio di uno scritto del
giurista: “Nella preparazione della Costituzione il Governo non ha alcuna
ingerenza. Nel campo del potere costituente non può avere alcuna iniziativa
neanche preparatoria. Quando l’assemblea discuterà pubblicamente la nuova
Costituzione i banchi del Governo dovranno essere vuoti. Estraneo del pari deve
rimanere il Governo alla formulazione del progetto se si vuole che questo
scaturisca interamente dalla libera determinazione dell’Assemblea sovrana”. A
ciò si aggiunge la constatazione di un Parlamento “di nominati sulla base
di una legge elettorale dichiarata dalla Corte costituzionale illegittima”.
Per il magistrato, l’unico cambiamento necessario, l’unico atto davvero
rivoluzionario sarebbe “applicare la Costituzione, non stravolgerla perché fa
comodo a qualcuno”. E ha ribadito che nel caso di vittoria del Sì “c’è il
rischio di modificare il principio della separazione e l’equilibrio dei poteri
dello Stato, sbilanciandolo a favore dell’esecutivo”.
Perché Di Matteo ha deciso di esternare il suo pensiero? Per il più logico
dei motivi: “Ho giurato fedeltà alla Costituzione e non obbedienza ai governi,
né tanto meno a soggetti che a mio parere rivestono, alcune volte anche
indegnamente, incarichi istituzionali”. E di persone indegne che rivestono
cariche istituzionali, il magistrato più osteggiato d’Italia per un processo
che tocca i fili dell’alta tensione, può certamente parlare. Quindi, per Di
Matteo, la riforma costituzionale altro non è che il tentativo di limitare il
potere dei cittadini, rafforzare quello dell’esecutivo e agevolare il partito
che la sta sponsorizzando.
Null’altro. Non semplifica nemmeno il processo legislativo, “semmai lo
complica con una formulazione astrusa del nuovo articolo 70 che crea le
condizioni per un clima di perenne conflitto di attribuzioni tra poteri dello
Stato”. Il Senato? “Non verrà abolito, continuerà ad esistere. Il
meccanismo che si viene a creare è di confusione istituzionale totale”. “Se
davvero il problema fossero i costi della politica si potrebbe ridurre
semplicemente proporzionalmente il numero dei deputati e dei senatori senza
stravolgere l’assetto costituzionale”
Ma c’è di più. Il magistrato è convinto che la riforma sia
profondamente compromessa da due potenti ‘virus’. Il primo:
l’influenza dei poteri finanziari sul nuovi disegno costituzionale, in particolare
la JP Morgan che ha delineato la sua forma ideale di Stato nel documento ‘Alla
narrazione su come gestire la crisi’ in cui lamenta il ‘problema’ di “Governi
deboli rispetto i Parlamenti e Stati centrali deboli rispetto alle Regioni”. Il
riferimento è ai Paesi che risentirebbero di una influenza socialista, tra cui
l’Italia, che dovrebbero impegnarsi a riformare questo assetto.
“Sarà poi il Governo Renzi – osserva Di Matteo - a condurre
disciplinatamente in porto le riforme mettendo mano alla Costituzione su due
dei punti essenziali suggeriti da JP Morgan. Mi pare che la riforma
costituzionale, sarà forse un caso, risponda a queste due indicazioni date nel
documento che vi ho letto”.
In buona sostanza, i poteri finanziari, dopo essersi spolpati i Paesi europei, per
soddisfare la loro voracità debbono sbarazzarsi di quel che resta della
democrazia: Parlamento e Regioni. Ricordiamo che nel 2013 JP Morgan pagò
al Governo degli Stati Uniti una gigantesca multa di tredici miliardi di
dollari dopo avere ammesso di avere venduto a piccoli investitori prodotti
finanziari inquinati. E questi dettano l’agenda politica.
Altro elemento: la coincidenza (?) dei contenuti di questa riforma con i
desiderata della P2: “L’attacco alla Costituzione comincia prima del Governo Renzi
- ha detto Di Matteo - questa idea di Stato per la prima volta nel dopoguerra
venne delineata nel Piano di rinascita democratica della P2 di Licio Gelli che
in una intervista del 1980 conferma il progetto”. Un bel viatico, non c’è
che dire. L’intervento del magistrato è stato molto applaudito. Succede quando
a parlare è un uomo sulla cui credibilità e sul cui coraggio nessuno ha dubbi.
All’incontro, oltre a Di Matteo, sono intervenuti: Armando Sorrentino
(dirigente dell’ANPI Sicilia), Salvatore Savoia (segretario generale della
Società Siciliana per la Storia Patria), Giusi Vacca (componente della
Segreteria Provinciale dell’ANPI di Palermo), Ottavio Terranova (coordinatore
dell’ANPI Sicilia), Michele Pagliaro (segretario generale della Sicilia, Confederazione
Generale Italiana del Lavoro), Carlo Smuraglia (presidente dell'Anpi).
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