Jean-Paul Sarte e Simone de Beauvoir |
ANTONIO GNOLI
Sarah Bakewell ricostruisce la storia dell’esistenzialismo E quel che resta
del movimento nato attorno ai tavolini di Parigi
Chissà se oggi – nelle condizioni certo sfavorevoli che ci troviamo a
vivere – incontreremmo mai, in un caffè parigino, quel giovane trio che agli
inizi degli anni Trenta discettava delle novità accadute in Europa. Chissà,
insomma, se le labbra da cernia di Sartre o quelle più altezzose di Aron, o
magari la giovane e ambigua vestale, che rispondeva al nome di de Beauvoir, si
sarebbero messe concitatamente a discutere della fine della democrazia e
dell’avanzata imperiosa dei populismi. Non è difficile immaginare che quel
periodo presentasse alcune forti analogie con il nostro oggi: come la perdita
di fiducia in quelle élite politiche che avrebbero dovuto affrontare il caos e
non seppero farlo.
In
un certo senso, i tre i nostri protagonisti hanno offerto nel corso delle
loro prestigiose carriere risposte intelligenti, ma non sempre adeguate. Hanno
immaginato – soprattutto la coppia Jean-Paul e Simone – che l’impegno (il
famoso engagement) sarebbe stato utile agli intellettuali stanchi di
essere chiamati chierici e per giunta traditori. Quanto ad Aron, dopo quel
breve periodo di intesa tra petits camarades, proseguì autonomamente
sulla sua strada disseminandola di valori atlantici e liberali, i soli baluardi
efficaci, a suo dire, contro il ritorno di fascismi e di comunismi. Troppa
acqua è passata sotto i ponti per non chiedersi se l’esistenzialismo, del quale
almeno Sartre e de Beauvoir, furono interpreti ascoltati e autorevoli, abbia
ancora qualcosa da dire alle nostre coscienze e ai nostri occhi sotto i quali
scorrono le pagine di
Al caffè degli esistenzialisti, di Sarah Bakewell (Fazi).
Avendo già scritto un bel libro su Montaigne, era fatale che prima o poi
Bakewell mettesse il naso in quel pulviscolo filosofico che è stato
l’esistenzialismo contemporaneo. E lo ha fatto, con molte buone ragioni,
raccontando la vita e il pensiero di diversi filosofi, divertendosi a
“fotografarli” ai caffè, molto in voga nella Parigi del dopoguerra.
L’autrice palpita dopo aver letto La nausea di Sartre, preferendo
il romanzo sartriano allo Straniero di Camus. Non manca di
apprezzamenti ironici verso la promiscuità sessuale di certi protagonisti (de
Beauvoir in testa), segue con commozione le difficili vicende di un personaggio
come Husserl, apprezza Heidegger pur cogliendone la povertà umana e l’insolenza
teorica. Ne usciamo, insomma, dopo oltre quattrocento pagine, con la sensazione
di avere a disposizione un quadro abbastanza fedele di che cosa sia stato
quel fenomeno filosofico e quanta moda abbia prodotto il suo stile. Come in
un’istantanea Bakewell ne fissa l’origine tra il 1932 e il 1933 «Quando tre
giovani filosofi siedono al caffè Bec-de-Gaz in Rue de Montparnasse, a Parigi,
aggiornandosi sugli ultimi pettegolezzi e bevendo la specialità della casa:
cocktail all’albicocca». Ne viene fuori un quadretto istruttivo. Aron sempre
informatissimo (a quel tempo studiava a Berlino) suggerisce a Sartre di
trascorrere un po’ di mesi in Germania. Perché è lì che la filosofia sta
facendo passi notevoli: grazie alla fenomenologia di Husserl, e a un certo Heidegger
il cui libro Essere e tempo sta mettendo a soqquadro l’ambiente
accademico. Per dei francesi, piuttosto disinvolti, che cosa poteva avere di
eccitante la fenomenologia? Al di là delle complicazioni, dovute soprattutto
alla lingua tedesca, la fenomenologia agli occhi di Sartre sgombrava il campo
filosofico da tutte le incrostazioni interpretative. Husserl invitò i suoi
allievi ad andare alle “cose stesse”. Come se dicesse: lasciate perdere tutto
quello che la filosofia ha pensato fino a questo momento, ignorate i sistemi,
non perdete tempo a esaminare le scuole filosofiche che si sono susseguite.
Badate solo al senso delle cose. Più che ai concetti pensate alle situazioni.
Siate fenomenologi: sospendete i giudizi e raccontate quello che vedete.
L’invito del vecchio filosofo fu accolto da Sartre: se Husserl ci incoraggia a
descrivere il mondo, chi meglio di me, che sono anche scrittore, potrà farlo?
Chi più di me potrà parlare di tutto: dai cocktail, appunto, ai camerieri
che li servono, fino all’esistenza umana che li precede. «L’esistenza precede
l’essenza», così Sar- tre formulò il suo programma filosofico. Quella
frasetta l’aveva in qualche modo orecchiata da Heidegger e adattata alla sua
visione umanistica. Il contrario, insomma, di ciò che il filosofo tedesco
intendeva con la parola “esistenza”, cioè un prerequisito antimetafisico e non
un programma per una filosofia che avrebbe preso il nome di “esistenzialismo”.
Fu grazie al successo di Sartre che l’esistenzialismo si trasformò in una
sottocultura o meglio in una moda che Parigi cavalcò con raro tempismo: musica,
pittura, letteratura, cinema, tutto finì tra gli anni Cinquanta e Sessanta
sotto il segno di una filosofia che decretava, con qualche ritardo rispetto a
Nietzsche, la morte di Dio, la solitudine dell’uomo, il peso drammatico della
decisione. E quindi della libertà. Mai parola più compromessa e ambigua fu
adoperata con tanta disinvoltura.
Infastidito e preoccupato che si potesse ricondurre l’esistenzialismo ai
suoi “sentieri interrotti” e al suo piccolo “Dasein” (Bakewell lo riduce a
l’”essere quotidiano”), Heidegger scrisse un libello che deluse Sartre e i suoi
amici. La lettera sull’Umanismo non solo decretava la distanza
hedeggeriana dall’esistenzialismo ma ne coglieva la fragilità speculativa.
Immaginare, insomma, che l’uomo, per quanto malconcio ed esasperato, potesse
essere protagonista di una rivoluzione filosofica era per Heidegger un
controsenso. Sartre e Heidegger si videro una sola volta. Nel 1953, a
Zähringen, la residenza cittadina di Heidegger. L’incontro, come nota Bakewell,
non andò bene, fu un dialogo tra sordi, dal quale Sartre si congedò di pessimo
umore. Ciascuno, in fondo, chiedeva ciò che l’altro non poteva dargli.
Heidegger glissò sul suo passato nazista, Sartre non rinunciò mai all’idea
dell’uomo portatore di un progetto di libertà. Affermazione che inorridì il
filosofo tedesco.
C’è da dire in conclusione che mentre la filosofia di Heidegger –
nonostante i Quaderni neri – continua a sollecitarci,
l’esistenzialismo di Sartre non ha trovato nessuna nuova reincarnazione.
Soppiantato dai postmodernismi (a loro volta messi da parte dai nuovi
realismi), e dalla post- cibernetica, e dal post-colonialismo,
l’esistenzialismo sembra vivacchiare con lo sguardo rivolto più al passato che
all’oggi. Il suo trionfo (ma forse anche la sua rovina) fu il Sessantotto. È
vero, come sostiene Bakewell, che ha fornito un contributo fondamentale al
cambiamento delle basi del nostro vivere odierno, sostenendo il femminismo, i
diritti degli omosessuali, l’abbattimento delle divisioni sociali, nonché le
lotte contro il razzismo e il colonialismo. Ma è come se quella carica
libertaria si fosse infranta sulla durezza contorta della realtà. Trasformando
le proprie esigenze in una democrazia del vaniloquio dove parole e simboli
hanno soppiantato i fatti e deluso ogni idea di verità possibile.
La Repubblica, 21 nov 2016
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