Walter Veltroni |
STEFANO CAPPELLINI
L’ex leader Pd: “Voto Sì ma non partecipo alle lacerazioni. Paura e
povertà, rischio autoritario in Occidente”
ROMA. Brexit, Trump, referendum italiano. La sequenza che spaventa molti, dice
Walter Veltroni, non è una questione che possa essere risolta con un Sì o con
un No nella cabina elettorale. L’ex segretario del Pd ha annunciato il suo voto
favorevole alla riforma costituzionale. Ma la baruffa in corso gli appare il
sintomo di una vocazione al suicidio politico. Sostiene Veltroni: «Il problema
non è l’Italia, ma il tramonto della sinistra in tutto l’Occidente. O ci si
mette mano o finisce male. Molto male». Il che, spostato sul fronte nazionale,
significa immaginare un appuntamento per il dopo referendum: «Le migliori
intelligenze devono guardarsi negli occhi e trovare le parole per costruire
insieme una interpretazione riformista della realtà, senza la quale ogni
personalizzazione è peggio che dannosa, è inutile».
Quale interpretazione suggerisce?
«La sinistra deve seguire due bussole: il bisogno di riscatto di chi sta ai
margini e il bisogno di sicurezza di chi sta in mezzo. Nella storia, quando la
classe media si è sentita perduta non ne è mai venuto nulla di buono. Siamo
cresciuti in un mondo basato su cinque pilastri - studio, lavoro, famiglia,
casa, pensione – che si sono sgretolati. Questa è la prima generazione nel
dopoguerra che scende di un gradino invece di salire».
Il problema è che, dagli Usa all’Europa, chi è in difficoltà sempre meno si rivolge alla sinistra.
«Se c’è un posto dove la sinistra non può non stare è il disagio sociale.
Si abbinano la più lunga recessione della storia e la più grave crisi dei
sistemi democratici, persino negli unici due Paesi – Usa e Gran Bretagna – in
cui non c’è mai stata una dittatura. L’inesperienza è oggi considerata un
valore: Trump è arrivato così al mestiere più complicato del mondo. La paura
che si sta diffondendo ha sempre prodotto autoritarismi, perché in queste fasi
la società tende a soluzioni di tipo semplificato».
C’è il rischio che la sinistra rincorra queste semplificazioni? “Contro i
politici attaccati alle poltrone”, è uno slogan usato nella campagna del Sì
come in quella del No. E non è l’unico esempio.
«La sinistra in difficoltà ha questo riflesso pavloviano: da una lato
pensare che il modo migliore di risalire sia, non guadagnare l’altra sponda, ma
tornare alla foce del fiume, a un passato ideologico che, non lo si vuol
capire, non esiste più. Dall’altro, l’omologazione alla Zelig, nel senso del
film di Woody Allen. Io per esempio non ho condiviso la scelta di Renzi di togliere
la bandiera europea, che ieri ho visto tornare alle sue spalle. Penso sia un
errore, una concessione all’antieuropeismo. Se la sinistra si fa variabile di
un discorso populista, è morta. Si rischia la Germania di Weimar».
Nell’Italia di oggi significa un governo Salvini? Grillo?
«Attenzione a fare di tutti i populismi un unico fenomeno. Quando sento
dire Trump-Le Pen-Wilders- Grillo penso che ci sia una semplificazione
propagandistica. Tra gli elettori di Grillo ci sono molti ex del Pd che
chiedono solo più moralità pubblica e più attenzione a chi è escluso».
Grillo dice che sinistra e destra non esistono più.
«Dissento, naturalmente. Ma la sinistra deve cambiare. Sono cambiati i modi
di produzione, di comunicare, cambiano le relazioni umane... Voglio citare il
titolo di un film, Spara forte, più forte non capisco, l’ultima
pellicola di Eduardo De Filippo, uomo di sinistra e di popolo. Ecco, cosa altro
deve succedere perché capiamo che è cambiato tutto? La sinistra ha cambiato il
mondo, conquistato diritti e fatto vivere meglio milioni di uomini. La mia
paura è che oggi non sia capace di stare dentro il suo tempo».
Altri sostengono che c’è stata fin troppo, barattando “modernità” e
disuguaglianza.
«La modernità non è il balletto Excelsior come forse qualcuno ha pensato
negli anni Novanta. Non è assecondare una globalizzazione che ha fallito o
aumentare la distanza tra la testa della società e la coda. La sinistra
deve tornare, da riformista, a farsi popolo. Viviamo nella società
dell’istante, un presentismo esasperato che nega la coscienza del passato e il
desiderio di futuro e rifiuta i due elementi chiave della democrazia: la delega
e la processualità, presentata come una lentezza, un orpello, una fatica.
Si è accorto che sono alcuni degli argomenti con cui il No si oppone alla riforma
della Costituzione?
«No, io dico quello che penso con la libertà che discende dalla mia scelta
di vita. Dico che la cruna dell’ago è molto stretta. Il cambiamento serve. Ma
deve correre su un doppio binario: rafforzamento delle capacità di decisione
del governo e rafforzamento delle capacità di controllo del Parlamento.
Altrimenti, la democrazia vacilla».
Democrazia senza partiti veri: può funzionare?
«Viviamo una società fortemente individualizzata. La democrazia della Rete
è il trionfo dell’Io. Non si può decidere tutto sull’asse Stato-privati.
Occorrono forme intermedie nelle quali la società si organizza e si
responsabilizza. La disintermediazione è pericolosissima. Ci vogliono
nuove forme di democrazia di comunità».
Renzi è stato un teorico della disintermediazione.
«Se è così, non è stato il primo. Personalizzare, ripeto, non ha senso. Non
partecipo al gioco del tiro all’orso sul segretario di turno».
Allora tiriamo sul suo Pd. Primarie per la leadership e partito liquido,
non era questa la ricetta?
«Io non ha mai usato espressione “partito liquido”. Ho sempre parlato di
partito aperto. Radicato nel territorio, ma non in mano a correnti e
capibastone. E me ne sono andato quando ho visto che il Pd non andava nella
direzione sperata».
La situazione non sembra migliorata.
«Penso che una lacerazione nel più grande partito della sinistra sarebbe
oggi una tragedia per la democrazia italiana».
Ha sentito De Luca su Bindi?
«Le parole hanno perso il loro peso. Il Pci aveva tanti difetti, su questo
però era una grande scuola. Nel mio documentario su Berlinguer, Napolitano si
commuove parlando di un leader con cui pure ebbe forti scontri politici. C’era
un rapporto di solidarietà umana che si è perduto. Io con D’Alema ho discusso
una vita, e continuo a farlo, ma mi lega a lui un rapporto di stima».
Il nome di D’Alema viene usato in piazza per scatenare l’ululato.
«E dall’altra parte viene usato quello di Renzi con aggettivi
inaccettabili. Il partito del “fuori-fuori” e quello del tiro all’orso si
somigliano».
Come può un Pd in queste condizioni sopravvivere unito al referendum?
«Non partecipo da molto tempo alla discussione interna al Pd. Dico solo una
cosa: la caduta di uno di pochi governi di centrosinistra rimasti in Europa
sarebbe molto grave. Vorrei che tutti se ne rendessero conto».
La Repubblica, 19 nov 2016
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