TANO GULLO
Sellerio ristampa il volume di Rosario La Duca che racconta i secoli in cui
l’arsenico era la soluzione contro gli avversari Bulgakov citò l’autrice di un
intruglio mortale Sciascia ricorda i casi di Pisciotta e Sindona
Femminicidio e maschicidio per tanti secoli - diciamo dal 1100
all’Ottocento - a Palermo si sono equivalsi. Lei e lui assassini in un testa a
testa altalenante, a “braccetto” senza gap. La “livella” che tutto tiene
insieme, è il veleno. Il micidiale arsenico, arma letale per chi voleva
sbarazzarsi di un coniuge ingombrante, di un parente vorace, di un familiare
vessatore. Quando non era il prevaricatore e l’ingordo a condire la letale
mistura per arraffare tutto, affetti, amanti, potere ed eredità. Ogni tanto fa
capolino la congiura politica, per fare fuori un viceré sgradito, un testimone
scomodo, una complicità da mettere a tacere.
È stato Rosario La Duca, da quell’impareggiabile spigolatore di piccole e
grandi storie che è stato, a ricostruire sette secoli di “attassamenti”, come
venivano chiamati . Il suo testo “I veleni di Palermo”, adesso ristampato, è
stato il primo libro pubblicato dalla nascente Sellerio nel 1970, officiante
Leonardo Sciascia , ispiratore delle scelte che hanno fatto grande la casa
editrice. Non è a caso che l’autore di “Candido” scelga i veleni come apripista
delle nuove edizioni. È sicuramente rimasto attratto da una sequela di
avvelenamenti emblema delle tante misture - delazioni, depistaggi, intrighi,
congiure, infamie, tradimenti - profuse dai tanti corvi, iene e sciacalli, che
hanno infestato e continuano a infestare Palermo. Non si muore solo di
arsenico, stricnina e cianuro, ma sono tanti gli intrugli infestanti e letali.
Così per La Duca e Sciascia, entrambi attenti studiosi di ogni forma di
veleno che abbia ammorbato la vita di tanti e la storia di tutti, è stato
facile incontrarsi. Nelle viscere del capoluogo scorrono ancora fiumi di
veleni. E le pagine del libro ci aiutano a cogliere le devastanti conseguenze
di rancori, odi, ingiustizie e vendette di ieri. E di oggi.
L’autore comincia con un tentativo da parte dell’ammiraglio Maione di fare
fuori l’arcivescovo Ugo. Due potenti, in combutta per uccidere il monarca e poi
su fronti opposti sulla gestione del dopo. Assatanati di potere. Nella
circostanza l’antidoto è la spada di Matteo Bonello che uccide il militare
prima che somministri il veleno al rivale. «Su un grande portone del palazzo
arcivescovile di Palermo si trova inchiodata, ancor oggi, l’elsa di una spada
che, secondo la tradizione popolare, sarebbe quella adoperata da Matteo Bonello
per trafiggere il grande ammiraglio di re Guglielmo». Da quel 1160 in poi La
Duca fa una galoppata nella storia in groppa alla morte.
Le vittime si succedono nella pagine in una catena di morte. Alti prelati -
rieccoci - come l’arcivescovo Ottaviano Preconio, che inaugura la lunga
sfilza dei soliti ignoti: assassini noti ai più però sempre coperti da un
potere compiacente o complice. Come il caso del bandito Rizzo Saponara che dopo
aver tenuto in scacco la Sicilia e il regno di Napoli viene catturato e
condotto nell’isola. Qui, appena sbarcato il 27 marzo del 1578, lo avvelenano,
per tappargli la bocca sulle protezioni ricevuta per venticinque anni di
scorribande impunite.
Ancora i soliti ignoti, ma forse sarebbe il caso parlare di soliti noti. Il
bandito è precursore ignaro di una scia di misteri che nel Novecento avrebbe
riempito chilometri di pagine di giornali e di libri: protagonisti, carnefici e
vittime, Gaspare Pisciotta e Michele Sindona, avvelenati in carcere. Con il
codazzo di tanti altri “attassati” senza veleno in una nebulosa di congiure di
Stato.
Sorvolando su alcune uccisioni sullo sfondo di contese feudali (in un caso
protettore di un pendaglio da forca è don Cesare Lanza padre della mitica
baronessa di Carini), facciamo un salto in avanti fino al tempo in cui
l’attività venefica si erge a livello quasi industriale. Non più questioni
personali da risolvere ma sapienza malefica al servizio di mogli e mariti che
vogliono riappropriarsi della propria libertà. Una sorta di divorzio alla
siciliana ante litteram.
La prima manager del veleno è Francesca La Sarda. La fatale mistura, sempre
a base di arsenico che ben si combina con i sapori forti dei nostri intingoli,
le rende bene. Scoperta, viene giustiziata il 17 febbraio 1633 al piano della
Marina davanti a 60 mila persone in tripudio.
Sulla sua scia entrano in affari Placido Di Marco e Thofania D’Adamo, che
dà il nome alla famigerata Acqua Tofana, un intruglio mortale che grazie a una
sua parente - Giulia Tofana avrebbe varcato i confini della Sicilia e messa in
commercio a Roma. Nella capitale Giulia fa proseliti e altre cinque donne
vengono appese con lei alla forca.
La capostipite Thofania verrà immortalata da Michail Bulgakov nel romanzo
“Il maestro e Margherita”, pubblicato nel 1966. La signora palermitana appare
nel “gran ballo di Satana” nella schiera dei grandi criminali, in
rappresentanza degli assassini per mezzo del veleno.
Le morti si succedono, qualcuno la fa franca, tanti altri inciampano nelle
maglie della giustizia. E sono guai tremendi: torture, mutilazioni, garrote, e
poi lo spettacolo finale in cui ha un ruolo la compagnia dei Bianchi,
consolatori e queruli suggeritori di pentimenti. Il rituale delle torture
è descritto nei particolari da La Duca. E c’è da rabbrividire. Anche
l’Inquisizione partecipa al grande show della morte.
L’autore si sofferma sull’avvelenamento di don Francesco D’Aquino, viceré
illuminista e illuminato, in una congiura di Palazzo che vede di straforo
implicato anche il famigerato abate Vella, quello de “Il consiglio d’Egitto”.
Un altro capitolo centrale riguarda un avvelenamento collettivo a Palazzo
Mazzarino durante uno sposalizio. L’artefice, ovviamente, è un corteggiatore
della sposa respinto.
Ed eccoci infine a Giovanna Bonanno, la “Vecchia dell’aceto” protagonista
dell’omonimo romanzo di Natoli, alias Wiliam Galt. Alla modica cifra di sei
tarì forniva la boccetta micidiale. Dopo aver sterminato decine di mogli e
mariti di troppo viene scoperta e giustiziata.
Ultimo a finire sul patibolo è un diciassettenne di Ciminna reo di avere
sterminato la sua famiglia. Siano agli albori dell’Ottocento, finisce il veleno
ma non i veleni che infestano ancora oggi le nostre vite. E Sciascia mette le
parole giuste a conclusione della sua prefazione: «In quanto agli altri veleni,
quelli “veri”, siamo qui ad assorbirli. E non come Mitridate».
La Repubblica/Palermo, 19 nov 2016
Nessun commento:
Posta un commento