Corleone, del grande fotografo cileno Sergio Larrain |
SUGGERIMENTO DI LETTURA PER
UNA RICORRENZA SEMPRE MOLTO SENTITA.
Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e
il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava
di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo
bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno
spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto,
consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono
stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi
nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di
vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che
nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo
trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno:
volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto,
ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato
ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di
giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove
l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo
casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un
armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano
trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che
formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato
nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità
mi scoppiò qualche linea di febbre.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”:
marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di
farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti
regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere
raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima
ballerina in un passo di danza.
A un certo momento della matinata, pettinati e col
vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a
ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i
viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono
quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la
nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti
alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di
uno sparluccicante triciclo.
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i
morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa
consuetudine.
Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari
l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada
che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo
spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità
di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia
personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi
ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può
indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo
più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione
sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
“Il giorno che i morti persero la strada di casa” da I
racconti quotidiani di Andrea Camilleri (Qua
e là per l’Italia- Alma edizione, Firenze 2008).
*****
LA FESTA DEI MORTI è una ricorrenza ancora oggi molto
sentita in Sicilia e viene celebrata dappertutto nell’isola il 2 novembre per
commemorare i defunti.
Tornando a parlare della sua Vigata, nel 2014, ANDREA
CAMILLERI propose questa variante al finale del bel testo proposto qui sopra:
«Poi nel 1943 arrivarono gli americani, lentamente i
morti persero la strada di casa e vennero sostituiti dell’albero di Natale. Credo
che però le tradizioni non si perdano del tutto. Non si trovano più i regali, i
bambini non mettono più il cestino sotto il letto. Ciò non toglie che tutte le
pasticcerie siciliane, per il 2 novembre, preparino quei dolci speciali che servivano
una volta per il cestino dei bambini. Mi riferisco ai pupi di zucchero, ai
frutti di martorana, oppure a quei dolci di miele, tra l’altro squisiti, detti
ossa di morto. Questo è un modo di conservare comunque la memoria delle
tradizioni. Credo non possa esserci un popolo senza memoria delle proprie
tradizioni. Le tradizioni si modificano ma è fondamentale continuare a
conservarle, in qualche modo, perché in un’epoca come la nostra, che è un’epoca
di mutamenti, l’unico modo per non avere paura di tutto ciò che sta avvenendo,
è sapere chi sei, senza bisogno di dirlo, di proclamarlo. Ma se sai chi sei,
con le tue tradizioni, non perderai mai la tua identità».
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