La lotta alle mafie. Quella telefonata con cui un maggiore dell’Arma comunicò la protezione. Disse che sarebbe durata qualche giorno. Non è mai finita
di ROBERTO SAVIANO
DIECI anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane. Ci sono cose a
cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta. Dieci anni fa ricevetti
una telefonata dall’allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non
dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una
comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva
che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: «Ma
per quanto?». E un maresciallo rispose: «Credo pochi giorni ». Sono passati
dieci anni. I motivi mi giunsero come una grandinata di situazioni che non
conoscevo. Una detenuta che aveva svelato un piano contro di me, poi le
dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Avrei
voluto tornare indietro e non scrivere più Gomorra, non scrivere più
alcun articolo, rifugiarmi.
Fare una sintesi di questi anni è difficilissimo, le prime parole che mi
sento di spendere sono tutte di gratitudine per i carabinieri che mi hanno
scortato ogni giorno, così come per gli ufficiali che li hanno coordinati. Ho
vissuto con i carabinieri gran parte del tempo.
Ho visto il loro impegno, i sacrifici, le attenzioni, che in questo momento
vorrei omaggiare. Sono diventati per me una famiglia, spesso le loro caserme mi
hanno accolto.
Il tempo dello sconforto arriva quando ti accorgi che tutto viene percepito
come normale. Dopo il mio caso, in Italia è esplosa una quantità di
richieste di protezione a giornalisti e attivisti, e tutto è sembrato normale,
ordinario, scontato. La verità è che non avevo idea di ciò che mi aspettasse.
Potevo immaginare una vendetta ma non le spire di un Paese talmente immerso in
una cultura del ricatto che diventa consustanziale alla strategia dei
clan.
Si dà per scontata la libertà d’espressione. In realtà è costantemente
minacciata, ancor prima che dalle situazioni di minaccia militare,
dall’isolamento, dalla diffamazione: chi è esposto pubblicamente, chi decide di
affrontare questi temi sa che non avrà affatto una vita facile. Chi descrive le
organizzazioni criminali, gli appalti, il riciclaggio sa che diventerà, in
qualche modo, bersaglio. Perché non si discuterà solo del merito di ciò che
scrive, ma si cercherà di distruggere la sua credibilità.
È come se chi scrive di mafia mettesse in difficoltà il lettore. È come se
si innescasse un senso di colpa nel lettore che si chiede: e io dov’ero mentre
accadeva questo? Io che faccio? Quasi un sentirsi complici. E quindi è più
facile dire: l’hai scritto per interesse, è tutta una messinscena, è tutto
esagerato. O l’altra accusa, la più comune di tutte: ma già si sapeva, già è
stato detto, il tuo non è nient’altro che mettere insieme cose note. Ma a
questo serve l’analisi: a mettere insieme le cose e dare loro un nuovo
significato. È ciò che temono di più le organizzazioni.
Ma questi sono gli effetti collaterali della battaglia. Negli anni non ho
dovuto subire solo la difficoltà di una vita sotto scorta, ma anche l’idiozia
di chi parla senza conoscere nulla. La peggiore feccia politica ha sempre
criticato la mia protezione come se fosse innanzitutto scelta da me (ribadisco
ancora una volta che non ne ho mai fatto richiesta) e senza aver mai letto
nessuna informazione al riguardo.
Sembrava che la mia vita dovesse spegnersi da un momento all’altro, nel
modo più violento e bizzarro. E poi ci fu l’avvenimento più pesante di tutti:
quando i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti firmarono quella che
l’Antimafia di Napoli ha considerato la minaccia più grave, fatta non solo a me
ma ad altri che si erano esposti contro di loro. Si accordarono sull’utilizzo
di un’istanza di rimessione per spostare il processo, che io avrei, secondo i
boss e il loro avvocato, condizionato con i miei scritti.
Era il 13 marzo 2008 e si stava celebrando a Napoli il giudizio di appello
del processo Spartacus. Bidognetti e Iovine (che al tempo era latitante),
tramite il loro avvocato, Michele Santonastaso, tentarono un’ultima carta: la
ricusazione del Collegio giudicante per legittima suspicione, come disciplinato
dalla legge Cirami. Un’iniziativa legittima, ma che per le sue modalità suscitò
sin da subito scalpore e preoccupazione. Quell’istanza di diverse decine di
pagine venne letta interamente in aula - un fatto senza precedenti sul piano
processuale - fino a diventare un vero e proprio proclama, con il quale i capi
del clan dei Casalesi, per bocca del loro avvocato di punta, «denunciavano » i
condizionamenti che avrebbero influenzato la serenità di giudizio della Corte
d’Assise d’Appello di Napoli e tutti i soggetti artefici degli stessi:
scrittori, giornalisti e magistrati che a Napoli avrebbero lavorato in sintonia
ai danni degli imputati. Mi si chiedeva di «fare bene» il mio lavoro, che dal
punto di vista della criminalità significa smettere di farlo cercando di
spiegare ciò che sta accadendo, raccontare con dovizia di particolari solo i
fatti di cronaca evitando accuratamente analisi sistematiche di quanto succede
sul territorio e la de- scrizione del contesto economico e politico nel
quale i singoli eventi si inseriscono.
Già nell’immediatezza dei fatti la condanna dell’accaduto fu unanime:
dall’allora procuratore generale della Repubblica Vincenzo Galgano fino all’ex
procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, chi conosceva le dinamiche
del processo, e in particolare di quel tipo di processi, subito comprese le
reali finalità di quella lettura coram populo. E fu unanime per un
motivo preciso: non si parlava di stampa e magistratura in termini generali,
no. Si facevano nomi e cognomi indicando agli affiliati possibili obiettivi.
Io all’epoca vivevo già da due anni sotto scorta e in quell’aula ero
presente non da uomo libero, ma da scortato, da protetto da quelli che mi
stavano di nuovo minacciando. Ero un topo in gabbia nonostante non avessi
commesso alcun reato e quelle parole mettevano un carico da cento. La lettura
dell’istanza di rimessione diede vita a un processo che si è concluso in primo
grado nel novembre 2014: i boss sono stati assolti e a essere condannato, a un
anno di reclusione per minaccia grave, è stato solo l’avvocato Santonastaso.
Le motivazioni della sentenza sono interessantissime. L’assoluzione
dei boss è conseguenza della difficoltà processuale di dimostrare il loro
diretto coinvolgimento nella redazione dell’istanza, ma si stabilisce con
nettezza che tra le finalità di Santonastaso vi era principalmente quella di
agevolare il sodalizio guidato proprio dai due boss. Peraltro, successivamente,
lo stesso Santonastaso è stato condannato dal Tribunale di Santa Maria Capua
Vetere a 11 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere di
stampo camorristico, favoreggiamento e falsa testimonianza aggravati, anche in
quel caso, dall’aver agito per favorire un’associazione camorristica. Ecco
perché, come è scritto nella sentenza, «la prospettazione ( da parte di
Santonastaso, ndr) di un male concretamente realizzabile per la profonda
conoscenza del modo di pensare degli affiliati al clan dei Casalesi, in caso di
mancato adeguamento del giornalista a un’idea di informazione più blanda e
superficiale, costituisce una vera e propria minaccia ». Santonastaso si è
sempre difeso sostenendo che avrebbe agito all’insaputa dei suoi assistiti,
nonostante in altri processi sia stato indicato come vero e proprio
rappresentante all’esterno dei boss reclusi al 41bis. Ecco di cosa stiamo
parlando: avvocati, talvolta rappresentanti delle forze dell’ordine,
faccendieri scaltri e arrivisti, che hanno talento e fame di potere. A loro il
ruolo di difensori – fondamentali custodi del principio costituzionale di
inviolabilità del diritto di difesa – sta stretto. È su queste persone che la
camorra fa affidamento, sa che si possono comprare e che per questo potrà
utilizzarle per qualunque scopo, anche per far sì che nei casi più delicati sia
difficile ricondurre nei processi le responsabilità ai capi: se ci pensate è
quello che a volte accade anche ai piani alti dell’economia capitalista.
«A mia insaputa» in Italia è ormai formula di rito. Ripetuta, calcolata,
abusata. «A mia insaputa», così si difendono politici, imprenditori,
faccendieri, chiunque non sappia giustificare una condotta sulla quale la
magistratura sta indagando. «A mia insaputa» è anche la formula con cui i boss
di camorra trovano il capro espiatorio che paghi sulla propria pelle la
responsabilità di scelte odiose, con un’attenzione alla “rispettabilità” che
solo in apparenza è valore di poco conto anche per un pluriergastolano. «Guappi
di cartone» li ho definiti più volte. Codardi. Codardi che da dieci anni mi
costringono a campare così. Eppure, nonostante tutto, quello che oggi mi
sentirei di gridare loro in faccia è: non ci siete riusciti! Non siete riusciti
a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche
se più volte mi sono spezzato. Ma se c’è una cosa che insegna questa lotta che
ho intrapreso con l’arma più fragile e potente che esista, la parola, è che
proprio quest’ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato
in frantumi. Esattamente come scrissi dieci anni fa in Gomorra: «Maledetti
bastardi, sono ancora vivo!».
La Repubblica, 17 ottobre 2016
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