di IGNAZIO COPPOLA
Ricordare
per non dimenticare. Il 19 ottobre, ricorreva l’anniversario
dell’eccidio di via Maqueda, a Palermo. Ricordare una strage
perpetuata per bloccare la ribellione dei cittadini esasperati dalla povertà e
dalla fame. Chiedevano solo giustizia e una vita più dignitosa. La risposta fu
il piombo. Erano gli anni della rivolta del “Non si parte”, quando gli
italiani, dopo aver abbandonato i tedeschi, si erano di fatto consegnati agli
americani. Quello Stato, che fino a qualche mese prima li aveva costretti a
combattere con i tedeschi, li richiamava alle armi per combattere contro i
tedeschi…
Il 19
ottobre del 1944, esattamente 72 anni fa, a Palermo in via Maqueda, davanti
palazzo Comitini, allora sede della Prefettura, veniva consumata nei confronti
di cittadini inermi, ad opera di un plotone dell’esercito italiano – un vero e
proprio plotone d’esecuzione, è proprio il caso di dirlo – una sanguinosa
strage con 24 morti e 158 feriti, che va sotto il nome di “Rivolta del pane”.
Fu la prima
strage nell’Italia liberata dal fascismo. Una strage dimenticata quali lo
furono tante altre, come la rivolta palermitana del 1866 altrimenti detta del
“Sette e mezzo” (come potete
leggere qui) con migliaia di morti e la sanguinosa
repressione dei “Fasci siciliani” del 1893-94. Rivolte, dimenticate o passate
sotto silenzio e relegate di fatto, ad usum delphini, nel
dimenticatoio della storia.
Ma per
tornare alla “Rivolta del pane” dell’ottobre del 1944, che sfociò in una
orrenda strage, essa va contestualizzata nel drammatico periodo storico del
dopoguerra in cui, in quel fatidico 1944, le rivolte contro il governo italiano
in tutta la Sicilia furono all’ordine del giorno a causa della fame, della
povertà e dei patimenti in cui il popolo siciliano era stato costretto dal
disastro della guerra fascista.
Una crisi di
rigetto si manifestò ancor di più nei confronti del governo italiano allorché,
da parte dello stesso governo Bonomi, fu emanato un decreto di richiamo alla
armi, che invitava i siciliani, per le classi comprese tra il 1914-24, a
tornare a combattere a fianco degli americani dopo avere combattuto a fianco
dei tedeschi. I siciliani stanchi, stremati e affamati dalla guerra insorsero
al grido “Non si parte”, perché non volevano più essere come lo erano stati
sino allora strumentale “carne da macello”.
Si accesero,
con questa parola d’ordine, nelle varie province della Sicilia numerosi focolai
di rivolta. Addirittura, al soffiare di questo vento impetuoso, furono
proclamate la Repubblica indipendente di Comiso che,
per otto giorni, resse per poi arrendersi agli assalti di un battaglione
dell’esercito italiano dotato di artiglieria e di mezzi pesanti; poi la Repubblica contadina di Piana degli Albanesi che,
guidata dal capopopolo Giacomo Petrotta, resse anch’essa per molto tempo, circa
cinquanta giorni, agli assalti dell’esercito ed infine la Repubblica di Palazzo Adriano.
A queste
rivolte di renitenza alla leva ed antimilitariste si aggiunsero le rivolte
degli affamati contro gli accaparratori di grano e gli speculatori che fecero
andare alle stelle il prezzo del pane. E fu così che, per tutto il 1944 e buona
parte del 1945, le sommosse antimilitariste e per il pane e la sopravvivenza in
Sicilia furono talmente numerose e partecipate che coinvolsero cinque province
con scontri armati, assalti agli uffici pubblici, barricate, morti e feriti tra
i popolani, ma anche nell’esercito e tra carabinieri.
Ed è in
questo contesto ed in questo clima che il 19 ottobre del 1944 si consumò la
strage della “Rivolta del pane”. Quel giorno diverse migliaia di palermitani,
esacerbati dalla fame ed esasperati e impoveriti dai disastri e dai
bombardamenti della guerra, si portarono in corteo davanti palazzo Comitini
allora sede della Prefettura (oggi della Provincia, ormai ex Provincia)
al grido di: “Pane, pace e lavoro”. Anziché, del pane, della pace e del lavoro
ottennero il piombo dei fucili modello 91 e due bombe a mano scagliate tra la
folla inerme da parte dei militi del 139° fanteria dell’esercito italiano al
comando del sottotenente Calogero Lo Sardo.
Era
mezzogiorno quando avvenne l’eccidio. Ed in quel mezzogiorno di fuoco falciati
dalle scariche della fucileria e dal proditorio ed ingiustificato lancio delle
bombe a mano rimasero sul selciato 24 vittime innocenti per lo più giovanissime
e 158 feriti. I soldati, da parte loro, non registrarono alcuna perdita se non
qualche lieve ferito. La strage era stata consumata, come tutte le stragi del
nostro Paese, a vantaggio di chi, esasperando il conflitto sociale, aveva
interesse a pescare nel torbido.
Le vittime
di quel vile atto d’infamia furono uccise una seconda volta quando al
processo-farsa, il cui dibattimento durò appena due giorni, celebrato presso il
Tribunale militare di Taranto, i colpevoli responsabili di quell’immane e
proditorio eccidio il 22 febbraio del 1947 furono riconosciuti responsabili
solamente di ”eccesso colposo di legittima difesa” e di non doversi procedere
nei loro confronti essendo il reato estinto per amnistia. Una sentenza
scandalosa che non rese in alcuno modo giustizia alle vittime e alla verità e
che, ancora oggi, grida vendetta.
Questo, per
un atto dovuto alla loro memoria, l’elenco delle vittime quasi tutte
giovanissime di quell’efferato eccidio da cui non ebbero mai giustizia:
Giuseppe Balistreri ( 16 anni),Vincenzo Cacciatore (38),Domenico Cordone(16),
Rosario Corsaro(30), Michele Damiano(12),Natale D’Atria(28),Andrea Di Gregorio
(16), Giuseppe Ferrante (12), Vincenzo Galatà ( 19),Carmelo Gandolfo (
25),Francesco Gannotta ( 22), Salvatore Grifati ( 9 ), Eugenio Lanzarone ( 20),
Gioacchino La Spia ( 17),Rosario Lo Verde (17), Giuseppe Maligno (22),Erasmo
Midolo (19), Andrea Oliveri (16), Salvatore Orlando (17), Cristina Parrinello
(61), Anna Pecoraro ( 37), Vincenzo Puccio (22 ), Giacomo Venturelli (60) e
Aldo Volpes ( 23 ).
Poco meno di
3 anni dopo il 1 maggio del 1947 altre vittime innocenti, uomini donne e
bambini, in tutto 11 morti (9 adulti e 2 bambini) e 27 feriti (in minor misura
dell’eccidio di via Maqueda, ma non per questo altrettanto efferato) cadranno a
loro volta nella piana di Portella della Ginestra sotto il piombo, questa volta
non dell’esercito, ma banditesco, mafioso ed eversivo. Mandanti, come sempre,
quei poteri occulti che, come nella strage del pane dell’ottobre del 1944,
esasperando i conflitti sociali, avevano interesse a pescare nel torbido.
E ancora una
volta furono e saranno vittime innocenti, come sempre, a pagare il conto di
questa strategia perversa che è durata, con una sequela di stragi e senza
soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Al processo di Viterbo per la
strage di Portella, ancora una volta, i giudici non resero giustizia alle
vittime del massacro incriminando gli esecutori e stendendo un pietoso velo sui
mandanti.
La strage di
via Maqueda dell’ottobre del 1944, la prima dell’Italia pos-fascista e la
strage di Portella della Ginestra del Maggio 1947, la prima dell’Italia
repubblicana, sono le prime di una lunga serie di stragi che si perpetueranno
nel tempo e che reclamano, ancora oggi, una giustizia mai pervenuta.
Sic
transit gloria mundi.
Foto tratta da antiwarsongs.org
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