di SALVATORE FERLITA
Il premio Nobel morto ieri sostenne che Ciullo d’Alcamo
non si riferisse a un fiore
«Rosa fresca aulentisima, / ch’apari inver’ la state / le donne ti disiano,
/ pulzell’ e maritate»: “O rosa fresca e profumatissima, che appari verso
l’estate. Tutte le donne, giovani e sposate, ti desiderano”: così impone la
vulgata scolastica. Basta sfogliare le vecchie antologie adottate nei ginnasi
per imbattersi in tale parafrasi puritana.
Ma siamo sicuri? Voleva dir questo, il poeta, con quell’incipit memorabile?
Ci vuol poco a diffidare della versione ufficiale: quando mai le rose
fioriscono nella calda stagione? Non occorrono studi approfonditi di botanica
per sospettare la mistificazione. A rendere pubblica l’impostura scolastica è
stato il grande Dario Fo, scomparso ieri all’età di novant’anni, il quale ha
restituito Cielo d’Alcamo al suo côté subalterno. L’attore, autore,
regista e scenografo, premio Nobel per la letteratura in forza dei suoi testi
rappresentati in tutto il mondo, dedicò infatti l’inizio del suo spettacolo più
noto, “Mistero buffo”, al fantomatico eppur arcinoto Cielo d’Alcamo. Ma più che
“buffo”, il mistero che lega il Nobel alla Sicilia è osceno. Tanto evanescente è però l’autore di “Rosa fresca aulentisima” dal punto di
vista biografico (poco o nulla si sa sul suo conto), quanto il suo componimento
è cospicuo e preciso, per la forza dell’invenzione linguistica e plastica.
Pur serbando, il testo, una natura ambigua, una sorta di anima misteriosa
appunto: non è, del resto, la poesia il regno dell’ambivalenza?
Dario Fo, che ha fatto sue le chiose di due studiosi come Toschi e De
Bartholomaeis, non è mai stato convinto della glossa canonica e per questo
motivo ha inserito il contrasto tra gli scritti più manipolati nella storia
della letteratura italiana. Mistificato perché censurato, presentato ai giovani
(a volte giovanissimi) lettori privo delle spinte irriverenti che i suoi versi
beffardamente registrano. Stiamo un attimo al gioco: se Cielo d’Alcamo non fu
poeta colto e letterato, come s’è voluto far credere, ma giullare di estrazione
popolare (anche se il tessuto linguistico e metaforico lascia presupporre una
cultura poetica di non poco conto), l’incipit potrebbe d’un tratto ribaltarsi:
che storia è mai questa, si è chiesto Fo, di una donna che assomiglia a una
rosa che fiorisce d’estate? Quando mai le rose sbocciano nel momento in cui il
caldo incrudelisce? A quale rosa allude dunque il poeta? E siamo sicuri, poi,
che “la state” significhi proprio l’estate? Può darsi invece che si tratti
della gonna composta da tante aste di stoffa. Di conseguenza, il bocciolo di
rosa che spunta da “sotto il sottano”, non sarebbe l’organo riproduttivo delle
Angiosperme, come recitano i trattati di fitologia, ma alluderebbe ad altro
organo riproduttivo: apriti cielo.
Le cose oltretutto si complicano se si procede oltre: «Le donne ti disiano
/ pulzell’ e maritate». Sentiamo che cosa diceva Fo: «Cioè, sei talmente bella
che anche le donne, pulzelle e maritate, vorrebbero fare l’amore con te. Per
non parlare delle vedove! Va beh… quello è risaputo, è normale. Ma dico, è una
pazzia! Ma pensate voi a scuola, il povero professore che dovesse spiegare le cose
così come sono dette: “è normale, ragazzi, nel Medioevo le donne s’accoppiavano
sovente”. Gli arriva un pernacchio che non finisce mai… di risate maltrattenute…
viene mandato via, cacciato da tutte le scuole del regno e basta, è finito!”.
L’affondo è impietoso: il povero insegnante, ci dice Fo, è costretto a
mentire. A improvvisare una filologia riparatoria e correttiva: “disiano” sta
per attrarre l’ammirazione, voler apparire, assomigliare. E che dire della
continuazione del componimento: «tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate
». Il giovane che si rivolge alla ragazza la prega di farlo uscire da questo
fuoco, se ne ha volontà. «E si sa benissimo – chiosa Fo – come riescano le
ragazze a far uscire dal fuoco e dal desiderio i ragazzi, quando ne abbiano
volontà».
Piuttosto, risponde la ragazza, mi faccio radere i capelli, cioè me ne vado
in convento. L’interlocutore però non si scoraggia: vengo nel tuo convento, le
dice, ti confesso e al momento buono… Insomma, ci troviamo in presenza di un
affondo satirico, grottesco e parodico. Un testo, “Rosa fresca aulentisima”,
dalla propulsione drammaturgica inarrestabile, messa in moto da una schermaglia
verbale ricca di tensione e soprattutto allusioni, doppi sensi, costellata da
immagini plastiche, grondante metafore spesso iperboliche.
E che dire del nome dell’autore? Ciullo (al quale si preferisce Cielo,
precisa Fo) starebbe per organo sessuale maschile e non potrebbe che essere il
soprannome di un giullare, dal momento che tutti i giullari avevano nomi del
genere, a dir poco osceni. Insomma, la truffa scolastica, «la più grossa che si
sia mai messa in opera”, in qualche modo è stata smascherata.
La Repubblica-Palermo, 14.11.16
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