I volontari di Medici con l’Africa-Cuamm
a Cerignola FOTO: ©ARCIERI
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PAOLO RUMIZ
In viaggio con i volontari del Cuamm tra i raccoglitori di pomodori nel
Foggiano. Per ricordare, quando apriamo un barattolo di “pummarola”, che lì
dentro ci sono la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di
Ahmed e lo sterno sfondato di George
CERIGNOLA (FOGGIA) - QUANDO i giovani medici mi dicono: “Dottore,
voglio lavorare in Africa”, rispondo che non occorre andarci, perché l’Africa è
qui». Piove sulle terre sterminate del Tavoliere.
ENZO Limosano, chirurgo vascolare in pensione, ci guida per una strada
infame tra uliveti e campi di carciofi sopra una terra grassa e lustra come
groppa di bufala. Destinazione, il “ghetto” chiamato Ghana, uno dei tanti
bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia. È la
provincia di Foggia, oltre un milione di tonnellate l’anno di soli pomodori. Il
camper è l’unico ambulatorio possibile in questo pantano. A bordo, una piccola
task force sanitaria (chirurgo toracico, dentista e infettivologo con alcuni
aiutanti) targata Cuamm, una Ong di solida reputazione che da sessant’anni
opera fra Etiopia e Mozambico. È gente che non si tira indietro davanti a
epidemie come Ebola o a guerre civili, ma che qui, mi accorgo, esita un attimo,
come ai confini dell’indicibile. «Vuole la verità? L’Africa è meglio. Si
sorride, lavori rilassato. Qui invece la tensione è ovunque».
Si va a zig zag tra le pozzanghere sotto un cielo piatto come un ferro da
stiro. Qua e là, casupole semi-abbandonate della riforma agraria fascista
rattoppate da teli. Ripari miseri, eppure lussuosi rispetto alle baracche
dell’Inferno vero, il famigerato Gran Ghetto di Rignano, 40 chilometri a
Nordest. È un agglomerato di quattromila schiavi ben visibile dagli aerei di
linea in atterraggio su Bari ma stranamente invisibile ai terrestri del
Foggiano. Non lo vedono nemmeno le folle di fedeli, vicinissime, che a San
Giovanni Rotondo innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui, fa miracoli
per gli ultimi della Terra.
Da Cerignola, il Ghetto Ghana dista sette chilometri, ma bastano a separare
le Ombre dal mondo dei vivi. Le facce bianche sono scomparse. Passano solo
medici e caporali. E cani. Quelli abbandonati, attirati dai reietti come loro.
Dopo, non è più Italia. Un barbiere improvvisato insapona un cliente sotto una
tettoia, tra galline, questuanti, bottiglie di birra e trattori arrugginiti.
Poco lontano, qualche tenda a pagoda, coperta di nylon per via dell’acquazzone.
È giorno di pausa, e si va a salutare Alexander, ghanese brizzolato, piccolo
boss di questo spazio di case sparse, in una baracca trasformata in bar. È lui
che detta legge, e i salamelecchi diventano necessari in un mondo di gerarchie
spietate. Zanzare microscopiche trapanano l’aria in un odore dolciastro
inconfondibile. Lo stesso della Bosnia ai tempi dell’ultimo conflitto. Polvere,
sudore, marciume e benzina. L’olfatto non distingue tra guerra e miseria.
Michele Alberga, 68 anni, il dentista, porta alla cintura un diffusore
sottocutaneo di insulina ma, nonostante l’età e il diabete, spende il tempo
libero a curare migranti con animo lieto, senza ipocrisie pietistiche o
assistenzialismi. Gli chiedo se non gli venga mai il dubbio, con la sua
dedizione, di essere funzionale a un sistema di sfruttamento. Risposta netta:
«Loro ci aspettano». È la stessa che mi veniva data in Uganda e in Sudan, negli
ospedali del Cuamm. «Se non lo fai tu — ti dicono — chi altro? ». Non ci si può
tirare indietro, se ci si vuol guardare allo specchio a giornata finita.
E loro ci aspettano davvero, in fondo allo stradone. Tanti, anche se il
Ghetto è mezzo vuoto, perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti
della Calabria, a farsi sfruttare in modo ancora più bestiale dalla
‘ndrangheta. Ogni settore ha le sue patologie. Dietro ai pomodori sciatiche e
lombalgie, dietro all’uva emicranie e dolori al collo. Gli agrumi si pagano con
spalle indolenzite, le coltivazioni in serra con disidratazioni gravi, i
carciofi con infiammazioni al gomito simili a quelle del tennista. Il tutto
senza contare gli incidenti gravi e le malattie sommerse. Quelle della miseria:
Aids, tubercolosi, meningite, sifilide o epatite. Solo i più forti ce la fanno
a tornare a casa.
Ha smesso di piovere. Attorno al camper si affollano i reduci della
campagna — appena finita — del pomodoro, tirate di dieci ore a riempir cassoni
per le aziende di trasformazione del Salernitano. Aspettano il medico anche per
quindici giorni, perché i pochi medici e infermieri volontari di Puglia non ce
la fanno a coprire più di due viaggi al mese. Fino al dicembre dell’anno scorso
funzionava un servizio di Emergency, solidamente finanziato e poi
burrascosamente interrotto dalla Regione per una serie di gravi incomprensioni.
Ora bisogna ripartire da zero, e la giunta ha allo studio un piano triennale
d’intervento per il quale si sono messi a disposizione, oltre al Cuamm, i
missionari comboniani e i Medici senza frontiere.
Sembra una retrovia della Grande Guerra. Mettere in fila i pazienti,
distribuire i numeri, evitare liti fra ghanesi e altri africani. Marcella
Schiavone, 28 anni, chirurga col Mozambico alle spalle, riceve nel camper. Il
divano per il paziente è minimo. Le domande semplici, in italiano o inglese
elementare. Come ti chiami. Quale problema. Quando è cominciato. Dimmi come
stai. Una donna sola davanti a quarantaquattro maschi in meno di tre ore, e non
è mai visita sommaria. Ognuno è tastato, auscultato con attenzione. Passa Ibra,
disidratato con dolori allo stomaco. Alì, con una cisti sul naso da
rimuovere. Richmond, con un’ernia inguinale. Franco, con una ferita al dito
medio, che stringe i denti mentre gli fanno uscire pus come dentifricio dal
tubetto. Daniel ha un piede mangiato dal diabete. Gli vedo l’osso nella ferita.
Non lavora più, ma chiede l’elemosina, e quella ferita da ostentare è il suo
unico capitale. Dorme in un’auto abbandonata, una cuccia immonda, e non pensa
al dopodomani.
Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona
pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di
Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono
chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole
implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi
sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il
naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i
carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali,
i trasportatori della Camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle
spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un
barattolo di pomodoro.
«Ho tenuto la mia bambina reclusa per mesi nella baracca perché non vedesse
l’orrore che c’era fuori», racconta tra le lacrime un reduce del ghetto di
Rignano. C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno. E c’è chi
tace, non svela i suoi aguzzini nemmeno se ha il corpo coperto di ferite da
taglio. E ci sono — raccontano i medici — storie come quella di una giovane
africana senza nome, drogata e violentata dal branco fino ai limiti della
medicina d’urgenza, capace a malapena di balbettare monosillabi. Da dove vieni?
Non so. Come sei arrivata qui?
Non ricordo. Come ti chiami? Non ne ho idea. Il capolinea della
disumanizzazione.
L’Italia può essere peggio dell’Africa.
Tanti tornerebbero a casa. Ma non hanno i soldi per farlo. E se lo
facessero, non oserebbero ammettere la sconfitta. Alla Regione sembrano
decisi a dire basta allo scandalo. Stefano Fumarulo, braccio operativo del
governatore per la sanità e le migrazioni, annuncia uno smantellamento
imminente in nome della dignità dei lavoratori. Con quali alternative di
alloggio? Ci sono Comuni spopolati che chiedono abitanti e sono disposti ad
accogliere stranieri, aziende che cercano uomini capaci di mestieri disertati dagli
italiani. E intanto si sperimentano forme associative per strappare i migranti
dalla tirannia dei caporali. Ma resta sempre il dubbio che, una volta fuori dai
ghetti, questi stranieri escano anche dal sistema-lavoro e si vedano costretti
a rientrarvi con mezzi ancora più precari.
«Senza una riforma della catena produttiva che imponga la tracciabilità, e
senza una certificazione etica del marchio, come avviene per altri beni, questa
bestialità non avrà fine», dice con ferrea convinzione Yvan Signet, sindacalista
partito dalle Malebolge di Rignano e uomo-simbolo della lotta per
l’affrancamento dei lavoratori stranieri. Uno che, non a caso, vive sotto
minaccia da parte dell’intero caporalato pugliese. «La cosa più grave è che non
si prende atto che nei ghetti si sperimenta un tipo di sfruttamento
perfettamente integrato nel sistema-Paese, uno sfruttamento che sta già
ricadendo sugli italiani. Pensi alla donna morta di fatica quest’estate nei
campi fra Taranto e Brindisi. Tutti sanno tutto, si fanno articoli e talk
show, ma per questa gente non cambia nulla».
Nelle quattro ore che siamo al Ghetto Ghana, da Cerignola non arriva anima
viva. Come per un ordine silenzioso, gli “indigeni” stanno alla larga. Nessuno
aggiusta la strada, e nemmeno l’Asl passa la frontiera tra i mondi. Non si deve
sapere, non si deve vedere. Anzi, non si vuole vedere, perché altrimenti
l’imbroglio sarebbe chiaro e la verità intollerabile. Quando torniamo a Bari —
tre quarti d’ora di macchina dal ghetto di Cerignola — lo struscio in corso
Vittorio è già iniziato. Fiumane di giovani ignari, incollati a telefonini
accesi come lucciole nel buio. Sono lontani mille miglia dai ghetti. E non
sanno di essere destinati, forse anch’essi, ad appartenere a una manovalanza
senza nome, in aziende senza patria che li sfrutteranno ottanta ore la
settimana.
Francesco Di Gennaro, 28 anni, brillante specialista in malattie infettive
con una forte esperienza in Mozambico per conto del Cuamm: «Questa potrebbe
essere una regione simbolo del domani, un luogo dove sperimentare il futuro...
Siamo o no la terra degli sbarchi? In Puglia potremmo capire come sarà il mondo
fra trent’anni... e invece la gente si è chiusa nel suo tornaconto. Persino i
giovani hanno smesso di chiedersi se questa è una società giusta o sbagliata».
La Repubblica, 6 ottobre 2016
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