giovedì, ottobre 06, 2016

REPORTAGE. La nostra Africa

I volontari di Medici con l’Africa-Cuamm 
a Cerignola FOTO: ©ARCIERI
PAOLO RUMIZ 
In viaggio con i volontari del Cuamm tra i raccoglitori di pomodori nel Foggiano. Per ricordare, quando apriamo un barattolo di “pummarola”, che lì dentro ci sono la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed e lo sterno sfondato di George
CERIGNOLA (FOGGIA) - QUANDO i giovani medici mi dicono: “Dottore, voglio lavorare in Africa”, rispondo che non occorre andarci, perché l’Africa è qui». Piove sulle terre sterminate del Tavoliere.
ENZO Limosano, chirurgo vascolare in pensione, ci guida per una strada infame tra uliveti e campi di carciofi sopra una terra grassa e lustra come groppa di bufala. Destinazione, il “ghetto” chiamato Ghana, uno dei tanti bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia. È la provincia di Foggia, oltre un milione di tonnellate l’anno di soli pomodori. Il camper è l’unico ambulatorio possibile in questo pantano. A bordo, una piccola task force sanitaria (chirurgo toracico, dentista e infettivologo con alcuni aiutanti) targata Cuamm, una Ong di solida reputazione che da sessant’anni opera fra Etiopia e Mozambico. È gente che non si tira indietro davanti a epidemie come Ebola o a guerre civili, ma che qui, mi accorgo, esita un attimo, come ai confini dell’indicibile. «Vuole la verità? L’Africa è meglio. Si sorride, lavori rilassato. Qui invece la tensione è ovunque».

Si va a zig zag tra le pozzanghere sotto un cielo piatto come un ferro da stiro. Qua e là, casupole semi-abbandonate della riforma agraria fascista rattoppate da teli. Ripari miseri, eppure lussuosi rispetto alle baracche dell’Inferno vero, il famigerato Gran Ghetto di Rignano, 40 chilometri a Nordest. È un agglomerato di quattromila schiavi ben visibile dagli aerei di linea in atterraggio su Bari ma stranamente invisibile ai terrestri del Foggiano. Non lo vedono nemmeno le folle di fedeli, vicinissime, che a San Giovanni Rotondo innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui, fa miracoli per gli ultimi della Terra.
Da Cerignola, il Ghetto Ghana dista sette chilometri, ma bastano a separare le Ombre dal mondo dei vivi. Le facce bianche sono scomparse. Passano solo medici e caporali. E cani. Quelli abbandonati, attirati dai reietti come loro. Dopo, non è più Italia. Un barbiere improvvisato insapona un cliente sotto una tettoia, tra galline, questuanti, bottiglie di birra e trattori arrugginiti. Poco lontano, qualche tenda a pagoda, coperta di nylon per via dell’acquazzone. È giorno di pausa, e si va a salutare Alexander, ghanese brizzolato, piccolo boss di questo spazio di case sparse, in una baracca trasformata in bar. È lui che detta legge, e i salamelecchi diventano necessari in un mondo di gerarchie spietate. Zanzare microscopiche trapanano l’aria in un odore dolciastro inconfondibile. Lo stesso della Bosnia ai tempi dell’ultimo conflitto. Polvere, sudore, marciume e benzina. L’olfatto non distingue tra guerra e miseria.
Michele Alberga, 68 anni, il dentista, porta alla cintura un diffusore sottocutaneo di insulina ma, nonostante l’età e il diabete, spende il tempo libero a curare migranti con animo lieto, senza ipocrisie pietistiche o assistenzialismi. Gli chiedo se non gli venga mai il dubbio, con la sua dedizione, di essere funzionale a un sistema di sfruttamento. Risposta netta: «Loro ci aspettano». È la stessa che mi veniva data in Uganda e in Sudan, negli ospedali del Cuamm. «Se non lo fai tu — ti dicono — chi altro? ». Non ci si può tirare indietro, se ci si vuol guardare allo specchio a giornata finita.
E loro ci aspettano davvero, in fondo allo stradone. Tanti, anche se il Ghetto è mezzo vuoto, perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti della Calabria, a farsi sfruttare in modo ancora più bestiale dalla ‘ndrangheta. Ogni settore ha le sue patologie. Dietro ai pomodori sciatiche e lombalgie, dietro all’uva emicranie e dolori al collo. Gli agrumi si pagano con spalle indolenzite, le coltivazioni in serra con disidratazioni gravi, i carciofi con infiammazioni al gomito simili a quelle del tennista. Il tutto senza contare gli incidenti gravi e le malattie sommerse. Quelle della miseria: Aids, tubercolosi, meningite, sifilide o epatite. Solo i più forti ce la fanno a tornare a casa.
Ha smesso di piovere. Attorno al camper si affollano i reduci della campagna — appena finita — del pomodoro, tirate di dieci ore a riempir cassoni per le aziende di trasformazione del Salernitano. Aspettano il medico anche per quindici giorni, perché i pochi medici e infermieri volontari di Puglia non ce la fanno a coprire più di due viaggi al mese. Fino al dicembre dell’anno scorso funzionava un servizio di Emergency, solidamente finanziato e poi burrascosamente interrotto dalla Regione per una serie di gravi incomprensioni. Ora bisogna ripartire da zero, e la giunta ha allo studio un piano triennale d’intervento per il quale si sono messi a disposizione, oltre al Cuamm, i missionari comboniani e i Medici senza frontiere.
Sembra una retrovia della Grande Guerra. Mettere in fila i pazienti, distribuire i numeri, evitare liti fra ghanesi e altri africani. Marcella Schiavone, 28 anni, chirurga col Mozambico alle spalle, riceve nel camper. Il divano per il paziente è minimo. Le domande semplici, in italiano o inglese elementare. Come ti chiami. Quale problema. Quando è cominciato. Dimmi come stai. Una donna sola davanti a quarantaquattro maschi in meno di tre ore, e non è mai visita sommaria. Ognuno è tastato, auscultato con attenzione. Passa Ibra, disidratato con dolori allo stomaco. Alì, con una cisti sul naso da rimuovere. Richmond, con un’ernia inguinale. Franco, con una ferita al dito medio, che stringe i denti mentre gli fanno uscire pus come dentifricio dal tubetto. Daniel ha un piede mangiato dal diabete. Gli vedo l’osso nella ferita. Non lavora più, ma chiede l’elemosina, e quella ferita da ostentare è il suo unico capitale. Dorme in un’auto abbandonata, una cuccia immonda, e non pensa al dopodomani.
Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali, i trasportatori della Camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un barattolo di pomodoro.
«Ho tenuto la mia bambina reclusa per mesi nella baracca perché non vedesse l’orrore che c’era fuori», racconta tra le lacrime un reduce del ghetto di Rignano. C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno. E c’è chi tace, non svela i suoi aguzzini nemmeno se ha il corpo coperto di ferite da taglio. E ci sono — raccontano i medici — storie come quella di una giovane africana senza nome, drogata e violentata dal branco fino ai limiti della medicina d’urgenza, capace a malapena di balbettare monosillabi. Da dove vieni? Non so. Come sei arrivata qui?
Non ricordo. Come ti chiami? Non ne ho idea. Il capolinea della disumanizzazione.
L’Italia può essere peggio dell’Africa.
Tanti tornerebbero a casa. Ma non hanno i soldi per farlo. E se lo facessero, non oserebbero ammettere la sconfitta. Alla Regione sembrano decisi a dire basta allo scandalo. Stefano Fumarulo, braccio operativo del governatore per la sanità e le migrazioni, annuncia uno smantellamento imminente in nome della dignità dei lavoratori. Con quali alternative di alloggio? Ci sono Comuni spopolati che chiedono abitanti e sono disposti ad accogliere stranieri, aziende che cercano uomini capaci di mestieri disertati dagli italiani. E intanto si sperimentano forme associative per strappare i migranti dalla tirannia dei caporali. Ma resta sempre il dubbio che, una volta fuori dai ghetti, questi stranieri escano anche dal sistema-lavoro e si vedano costretti a rientrarvi con mezzi ancora più precari.
«Senza una riforma della catena produttiva che imponga la tracciabilità, e senza una certificazione etica del marchio, come avviene per altri beni, questa bestialità non avrà fine», dice con ferrea convinzione Yvan Signet, sindacalista partito dalle Malebolge di Rignano e uomo-simbolo della lotta per l’affrancamento dei lavoratori stranieri. Uno che, non a caso, vive sotto minaccia da parte dell’intero caporalato pugliese. «La cosa più grave è che non si prende atto che nei ghetti si sperimenta un tipo di sfruttamento perfettamente integrato nel sistema-Paese, uno sfruttamento che sta già ricadendo sugli italiani. Pensi alla donna morta di fatica quest’estate nei campi fra Taranto e Brindisi. Tutti sanno tutto, si fanno articoli e talk show, ma per questa gente non cambia nulla».
Nelle quattro ore che siamo al Ghetto Ghana, da Cerignola non arriva anima viva. Come per un ordine silenzioso, gli “indigeni” stanno alla larga. Nessuno aggiusta la strada, e nemmeno l’Asl passa la frontiera tra i mondi. Non si deve sapere, non si deve vedere. Anzi, non si vuole vedere, perché altrimenti l’imbroglio sarebbe chiaro e la verità intollerabile. Quando torniamo a Bari — tre quarti d’ora di macchina dal ghetto di Cerignola — lo struscio in corso Vittorio è già iniziato. Fiumane di giovani ignari, incollati a telefonini accesi come lucciole nel buio. Sono lontani mille miglia dai ghetti. E non sanno di essere destinati, forse anch’essi, ad appartenere a una manovalanza senza nome, in aziende senza patria che li sfrutteranno ottanta ore la settimana.
Francesco Di Gennaro, 28 anni, brillante specialista in malattie infettive con una forte esperienza in Mozambico per conto del Cuamm: «Questa potrebbe essere una regione simbolo del domani, un luogo dove sperimentare il futuro... Siamo o no la terra degli sbarchi? In Puglia potremmo capire come sarà il mondo fra trent’anni... e invece la gente si è chiusa nel suo tornaconto. Persino i giovani hanno smesso di chiedersi se questa è una società giusta o sbagliata».

La Repubblica, 6 ottobre 2016

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