Abbiamo visto “In guerra per amore”, nelle sale da domani, con il presidente
del Centro Impastato che esprime i suoi dubbi sul ruolo di Lucky Luciano e
sulla repressione fascista
di MARIO DI CARO
Macché regia occulta di Lucky Luciano. Macché mafia battuta dal fascismo. Umberto
Santino, presidente del Centro di documentazione Impastato, saggista, uno dei
maggiori studiosi del fenomeno Cosa nostra, è uno spettatore ostico della
commedia di Pif “In guerra per amore”, da giovedì al cinema. Nella sala del
Rouge et Noir che ospita la proiezione per la stampa, Santino “rimanda a
settembre” l’autore per alcune ricostruzioni storiche del film, imperniato,
storia d’amore a parte, sul patto tra mafia e americani dopo lo sbarco in
Sicilia.
Patto che portò a legittimare il potere di alcuni mafiosi come
Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo al punto di nominarli sindaci dei
loro feudi, Villalba e Mussomeli, come ribadisce anche il finale del film, ma
per Santino ci sono «molte forzature sul piano storiografico» perché «in gran
parte il riferimento principale rimane la ricostruzione di Michele Pantaleone,
smentita dagli storici più attenti» Insomma, se il “Memorandum” sulla mafia del
capitano Scotten datato 1943, citato dal regista alla fine del film, è la prova
regina della trattativa degli americani per cercare un grimaldello siciliano
nella mafia, più di una interpretazione viene sottolineata da Santino con
un’immaginaria matita rossa. Andiamo per ordine.
Il film mostra il presidente Roosevelt in sedia a rotelle mentre annuncia
ai suoi generali che la Sicilia è l’obiettivo da conquistare («in realtà furono
gli inglesi a Casablanca ad avere individuato l’Isola come roccaforte
strategica», chiosa Santino) e subito dopo un ufficiale americano si reca in
carcere per avviare una trattativa con Lucky Luciano al fine di contattare
“patrioti” siciliani dopo lo sbarco: trattativa che, secondo il film, a guerra
finita, sarà premiata con la scarcerazione del boss. Non è esatto, secondo lo
studioso.
«Lucky Luciano fu contattato dopo gli attentati nel porto di New York che
causarono l’incendio del piroscafo “Normandie” e che si temeva fossero opera di
spie tedesche. In realtà si trattava di attentati degli stessi mafiosi che
avevano il controllo del sindacato dei portuali.Una classica procedura di estorsori
siciliani esportata dai racketeers americani, che ebbero un ruolo
nell’eliminazione dei sindacalisti non alllineati come l’antifascista Carlo
Tresca, ucciso nel’42 da Carmine Galante e Vito Genovese. Questi divenne poi
collaboratore e traduttore di Charles Poletti, capo degli affari civili durante
l’occupazione americana. Si dice che Luciano fosse in Sicilia nei giorni della
strage di Portella, ma su questo c’è un grande punto interrogativo ».
Uno dei personaggi più riusciti del film è il don Calò Russo, crasi tra
Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo, impersonato da Maurizio Marchetti, il
Jean Pierre di “La mafia uccide solo d’estate”, boss domineddio che accoglie
gli americani alle porte dell’immaginaria Crisafullo promettendo che non
avranno bisogno di sparare un colpo. Un personaggio che diventa il punto di
riferimento del comando americano. «Ma in realtà ci fu un episodio in cui il
vero don Calò fu maltrattato dagli americani – dice Santino – Ci fu una
scaramuccia in cui fu ucciso un americano, Vizzini fu prelevato dai
militari, interrogato e trattato in malo modo. Ma dopo fu nominato sindaco
poiché occorreva ricostruire una classe dominante di sicura fede anticomunista
».
Col “papello” dei nomi dei mammasantissima in mano, il tenente americano va
in carcere per fare rilasciare la peggiore feccia del paese arrestata prima
dello sbarco e spacciata per antifascista da don Calò. «L’azione
repressiva del prefetto Mori fu efficace nei confronti del ceto medio mafioso
ma non è vero che il fascismo aveva sconfitto la mafia – corregge Santino – Le
indagini degli anni Trenta testimoniano che c’era una mafia perfettamente
organizzata. Con il governo di coalizione antifascista del ’44-47che diede le
terre incolte alle cooperative di contadini ripresero le lotte e iniziarono gli
attentati ai sindacalisti. E con la vittoria del Blocco del popolo alle
regionali del ’47 si ha la strage di Portella».
Il film si chiude mostrando la testimonianza più autorevole sul patto
Mafia-Usa, il citato rapporto Scotten del’43, quello che prospetta tre ipotesi
per combattere il rinnovato potere dei boss: un’azione armata, una tregua con i
capimafia, abbandonare l’Isola al suo problema consapevoli di consegnarla al
giogo criminale per molti anni.
Ma allora Pif ha ragione a sostenere che il salto di qualità la mafia l’ha
fatto grazie agli americani che nominarono sindaci mafiosi? «Il salto di
qualità sta nella legittimazione dei mafiosi come classe dominante, in
continuità con un ruolo storico esercitato di fatto e già analizzato da
Franchetti nel 1876. Il controllo della Sicilia viene delegato alla mafia e
alla fine si scelse una via di mezzo tra la seconda e la terza ipotesi di
Scotten».
Va bene, ma il sorriso come arma antimafia? La scelta di voler ridere sulla
mafia come già hanno fatto Roberto Benigni con “Johnny Stecchino” e Roberta
Torre con “Tano da morire”?
«La satira ha un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia. Peppino
Impastato usava uno strumento che per i mafiosi era micidiale, non sopportavano
che su “Onda pazza” si storpiassero i loro nomi e che si ridesse di loro.
Sciascia non capì che “Il mafioso” di Lattuada era un film satirico. “L’onore
dei Prizzi” di John Houston, “Pallottole su Broadway” di Woody Allen e “Johnny
Stecchino” di Benigni fanno satira sulla mafia, Ciprì e Maresco hanno
lampi di genialità, io stesso ho cercato di ridere della mafia nel libro
“Ragionevole proposta per pacificare la città di Palermo” in cui propongo di
legalizzare gli omicidi mafiosi con il semplice pagamento di una tassa. Il mio
libretto allora suscitò le reazioni dei benpensanti che dicevano “di certe cose
non si ride”. Ma in questo film trovo un approccio troppo farsesco e troppo
didascalico. La satira deve essere più tagliente, la risata non deve essere
legata alla macchietta o alla battuta». Il soldato Pif è avvertito.
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