GUSTAVO ZAGREBELSKY |
GUSTAVO ZAGREBELSKY
A Scalfari rispondo che la democrazia è lotta per la democrazia e non è la
classe dei privilegiati quella che può condurla
L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio
Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le
democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che
oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo
per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è
totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura.
Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle
proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma
oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia,
anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la
differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.
TUTTI I governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e
inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima
frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle
sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e
sommamente importante. Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che
l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la
sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non
sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le
riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe
ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei
governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che,
in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte. Troviamo sempre e
solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate,
gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo
oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta
la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è
mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio
degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura
del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in
un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita
la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta
conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono
rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè
verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo
realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei
molti, fatalmente si spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda
principalmente il numero, ma il chi e il come governa.
Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi,
abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei
ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i
privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale
contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è
solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più
numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se
accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri. Si
può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più,
fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi
non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno
acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è
quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che
deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è una sua
caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per
le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono
occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non
solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con
discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere
quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti
che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così,
l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè
non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei
governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo
il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva,
dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della
democrazia il “persistere delle oligarchie”. Se ci guardiamo attorno, potremmo
dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e
velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di
connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre
meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la
nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera
inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia.
Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime
dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo
nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e
ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime
della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri
scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei
discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà,
giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista.
Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica
significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo,
significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e
partecipazione. Anche per “democrazia” è così. Dal punto di vista degli esclusi
dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico
consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il
conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi,
la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che
stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono
gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti
degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle
decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di
conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo
regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per
indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In
questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della
Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3,
là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla
giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio
Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma
costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum
popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che
vedere, e molto da vicino.
La Repubblica, 12 ottobre 2016
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