La classe cristallina. Ma anche i capelli da Beatle, l’amore «irregolare», la gallina al guinzaglio: imperdonabili, irresistibili libertà. Fino alla tragedia. Il racconto di una stella del calcio italiano fatto dalle firme del «Corriere»
La «tragedia inspiegabile»
Torino, 15 ottobre 1967. Una domenica come tante, se non fosse che il Toro ha messo a segno una grande vittoria contro la Sampdoria per 4 reti a 2, al termine di una partita talmente bella da convincere l’allenatore Edmondo Fabbri a concedere una libera uscita alla squadra. Occasione colta al volo dai due assi granata Fabrizio Poletti e Gigi Meroni, che ne approfittano per uscire con le rispettive fidanzate, mentre sulla città sta calando la sera. Camminano spensierati per le vie del centro, la vittoria li rende leggeri e Gigi ha fretta di vedere la sua Cristiana. Sono da poco passate le 21:30, i due amici stanno attraversando il trafficato Corso Umberto senza accorgersi dell’arrivo alle loro spalle di una macchina che li urta. Poletti è solo sfiorato. Meroni si ritrova scagliato in mezzo alla carreggiata opposta, proprio mentre sopraggiunge una Lancia Appia, che lo investe violentemente e lo trascina per decine di metri, lasciandolo sull’asfalto privo di conoscenza.
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Gigi Meroni, l’indimenticabile «Farfalla granata»
«Sono quel che sono»
«Sono un tipo
semplice, perché mi sento un tipo semplice. Ma l’opinione pubblica mi ha voluto
imporre il ruolo di “estroso” a tutti i costi. A forza di sentirmelo dire e di
vederlo scrivere ho finito col crederci. Di me stesso sono contento. Non ho mai
fatto nulla che adesso non rifarei. Son quel che sono: non mi cambierei con
nessun altro». A Torino da circa tre anni, il fantasioso e imprendibile numero
7 si descrive così in un’intervista a Corriere, ormai idolo dei
tifosi granata, che per i suoi dribbling da giocoliere e certi gol dalle
traiettorie impossibili gli perdonano l’anticonformismo dei capelli lunghi, la
barba incolta, i calzini abbassati e pure le bizzarrie fuori dal campo, quei
vestiti beat, la gallina portata al guinzaglio per la città, la Fiat Balilla
così retrò, ma soprattutto la trasgressione di convivere con una donna —
Cristiana Uderstadt — formalmente sposata con un altro uomo, nell’Italia che
ancora non conosce il divorzio.
Alle critiche feroci
di certa stampa, dirette più ai suoi comportamenti fuori dal terreno di gioco
che alle sue mancanze calcistiche, Gigi replica negando di essere un
esibizionista, piuttosto un ragazzo in linea con i tempi e con l’aria di
cambiamento e libertà che sta arrivando dagli Usa e dall’Inghilterra, quella
della musica dei Beatles, delle mini di Mary Quant e delle contestazioni
studentesche. Un rapporto difficile, insomma, quello tra Meroni e la stampa, su
cui ironizza Umberto Simonetta dalle pagine di Corriere: «Una notizia apparsa
tempo fa nelle cronache sportive dei quotidiani induce a qualche piccola
riflessione. [...] Luigi Meroni, giocatore professionista del Torino, non verrà
più convocato a far parte della squadra nazionale italiana. Cancellato, messo
al bando. Di più: additato allo spregio e all’irrisione di tutti gli
appassionati» e si chiede «Di quale infamante reato sportivo o extra sportivo
s’è reso dunque colpevole il Meroni per giustificare un così drastico
provvedimento? [...] il Meroni s’è lasciato crescere i capelli: li porta lunghi
lunghi, fin sul collo, alla Beatles. Hai capito che razza di degenerato!». (Nella foto sopra, Olycom/Cesare Galimberti, Meroni con Nereo Rocco).
Quel no all’Inter detto dalla mamma Rosa
Personaggio naïf,
irriverente, irregolare e fuori dal coro, e insieme calciatore disciplinato e
geniale, capace di prodezze estemporanee, talmente veloce e leggero da
meritarsi la definizione di «farfalla». Un talento puro e precoce, sbocciato
nel cortile di casa a Como e cresciuto nelle giovanili locali, notato prima
dall’Inter —ma la madre Rosa dirà no ai viaggi verso Milano — e poi dal Genoa,
che lo ingaggia nell’estate del 1962 per 30 milioni di lire grazie al fiuto di
Livio Fongaro. E per la personalità estrosa di Meroni, appassionato di pittura
oltre che di calcio, Genova diventa lo scenario perfetto, dove si fa notare per
le sue prime perle calcistiche e dove sboccia il grande amore per Cristiana, la
figlia di giostrai che diventerà la sua compagna. Amato dai tifosi per le sue
prodezze sul verde, «U Meruni», come viene soprannominato, lascerà la città
ligure nel ’64, non senza qualche strascico polemico, dopo 40 presenze e sei
reti, per approdare al Toro di Orfeo Pianelli e Nereo Rocco. Qui, con la maglia
numero 7 e un estro calcistico fuori dal comune, entrerà immediatamente nel
cuore dei tifosi granata e dei compagni di squadra, Poletti, Combin e Vieri in
primis, ma in generale di un’intera città, che partita dopo partita, ogni
lunedì mattina si troverà a commentare i guizzi geniali di quel calciatore
tanto stravagante quanto capace. Tanto più che l’arrivo di Meroni va a
coincidere con una stagione d’oro per il Toro post Superga, tornato a vincere e
a guadagnarsi un terzo posto nel campionato nel ’65, il debutto nelle Coppe
europee nel ’66 e la convocazione in nazionale per alcuni suoi giocatori, tra
cui l’inarrestabile ala destra.
«Se vai dal barbiere,
potrai andare in Nazionale» gli aveva suggerito il presidente granata Orfeo
Pianelli e il richiamo della maglia azzurra aveva convinto Gigi Meroni a
«sacrificare» ai benpensanti quel suo look sopra le righe. Inutilmente,
verrebbe da dire, perché ai mondiali inglesi del ’66 la stampa e la stessa
Federazione non gli perdoneranno nulla, sebbene giochi una sola partita contro
l’Urss, accusandolo di offendere la nazionale con il suo stile irriverente e di
essere tra i maggiori responsabili della disfatta azzurra al primo turno. Con
qualche eccezione, come Nino Oppio, che su Corriere riconosce la bravura di
Meroni nell’amichevole azzurra del marzo ’66, nonostante i «capelloni»: «Dicono
che Paola di Liegi, seduta in tribuna d’onore, abbia chiesto chi fosse quel
tipo che assomigliava più a un Beatle che a un calciatore. La cosa
nell’intervallo fu riferita a Gigino Meroni e lui, seccato, rispose: “Adesso
vedrà come il Beatle sa giocare a calcio!”. [...] Indubbiamente, il discusso
capelluto è stato di gran lunga il migliore in campo. Che egli sapesse giocare,
che egli avesse mosse, finte dribbling alla Sivori, lo si sapeva, ma che fosse
dotato di un temperamento così forte, non era noto. In pratica, è stato l’uomo
di punta più abile e pericoloso». (la foto di Meroni con la maglia azzurra, di Olycom/Cesare
Galimberti)
È quella giocata nel
marzo del 1967 contro la leggendaria Inter di Helenio Herrera, imbattuta in
casa da tre anni, costretta a inchinarsi alla bravura di Meroni, dopo uno
slalom che beffa il grande Giacinto Facchetti e va in gol all’incrocio dei pali
con un pallonetto che lascia a bocca aperta il pubblico di San Siro, granata e
non. Una partita memorabile, giocata dopo una notte insonne a tentare di
riappacificarsi con l’amata Cristiana, e un gol che gli vale i complimenti di
Sandro Mazzola e lo consacra stella del calcio italiano, attirando su di lui
l’interesse del presidente bianconero Gianni Agnelli, disposto a cifre
astronomiche pur di strappare al Toro il talentuoso Meroni. L’offerta economica
che arriverà sul tavolo di Orfeo Pianelli è di quelle irrinunciabili, se non
fosse per la sollevazione indignata della tifoseria granata, che costringe la
società e pure l’Avvocato a desistere al grido di: «Agnelli, giù le mani dal
Torino!». Dirà poi Gigi Meroni al giornalista Franco Costa in un’intervista del
luglio ’67: «Se la Juventus non mi ha voluto, beh, vuol dire che non intende
vincere un altro scudetto», e sul Torino «Adesso spero di rimanere al Torino
altri dieci anni: mi auguro soltanto che al momento dei trasferimenti, non si
faccia più tanto chiasso attorno a me».
(la foto della gara del marzo 1967, Olycom).
(la foto della gara del marzo 1967, Olycom).
«Una tragica fatalità»
La mattina del 16
ottobre 1967 la notizia della scomparsa di Gigi Meroni lascia attonita un’intera
città, e per un momento cancella lo spazio invalicabile tra le tifoserie
rivali, come pure le tante critiche di certa stampa, che gli si era sempre
scagliata contro per via delle sue stravaganze e soprattutto per la sua
«scandalosa» storia d’amore. Una colpa, questa, che aleggerà persino il giorno
dei funerali, celebrati dal cappellano del Toro don Ferrando in aperta polemica
con la Diocesi di Torino, che si era opposta ai funerali religiosi di Gigi
Meroni. La tragedia, però, metterà d’accordo tutti gli amanti del calcio, uniti
nel rimpiangere i gol mancati della «farfalla granata» e il suo gioco mirabile.
La palla al cielo per la «farfalla»
Appena una settimana
dopo, in un derby destinato a restare negli annali, mentre un elicottero sparge
fiori sullo stadio, le tifoserie rendono un omaggio corale e silenzioso a
Meroni e i compagni del Toro regalano all’amico scomparso una partita
mozzafiato, una vittoria ispirata dal dolore, con la tripletta dell’amico
Nestor Combin e la rete del giovane Alberto Carelli, che commosso alza la palla
al cielo con indosso la maglia numero 7 della «Farfalla».
Quella strana coincidenza
Mentre Torino piange
il campione scomparso all’improvviso, dal passato granata emerge una
coincidenza singolare: sulla lapide che omaggia la leggendaria squadra morta a
Superga, qualcuno nota il nome «Meroni P. L» e pensa che la società abbia
voluto omaggiare il suo numero 7 nel luogo simbolo dei cuori granata: «]…]
Superga è un passaggio obbligato per chi viene a Torino. E da qualche giorno pare
proprio un passaggio obbligato anche per i torinesi. Sul bianco della lapide
sono stati scritti in rosso i nomi di tutti coloro che costituiscono le vittime
della sciagura. I giocatori, l’allenatore, i dirigenti, i giornalisti, gli
uomini di equipaggio e, in fondo a sinistra i nomi dei due piloti. Uno di
questi di chiamava Pier Luigi Meroni. Così adesso la gente che sale a Superga e
vede quel cognome “Meroni P. L.” crede si tratti del giocatore granata...». (l’articolo originale sfiorando l’icona blu)
Pochi mesi dopo il
dramma, il destino riserverà un ulteriore dolore ai familiari di Meroni: il
gesto di un folle, che profana la tomba del campione e ne viola la salma, per
poi costituirsi spontaneamente alla polizia, dicendo di averlo fatto perché non
credeva alla morte del proprio idolo (foto Olycom/Cesare Galimberti).
Corriere della sera, 15 ottobre 2016
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