di ALBERTO STABILE
ALEPPO. REPORTAGE DALLA CITTÀ MARTIRE DELLA SIRIA: “UN MASSACRO SOTTO LE BOMBE. Viaggio nei quartieri a Ovest della città simbolo del conflitto, dove
governa il regime siriano. E pure qui, come a Est, sono i piccoli che pagano il
prezzo più alto
SULLA città oscurata dalla penuria di petrolio e dalle esigenze della
battaglia, le esplosioni risuonano ad intervalli irregolari. È un bombardamento
continuo ma non intenso quello che le forze siriane, assieme agli Hezbollah
libanesi, appoggiate dall’aviazione russa, conducono sui quartieri orientali.
Pare che la scorsa settimana sia stato molto peggio.
STANOTTE, invece, tra un boato e l’altro poteva passare un minuto, o
anche mezz’ora. Una lunga parentesi che il rombare degli aerei ad alta quota colmava
d’ansia. È dunque probabile che il riaprirsi di uno stretto spiraglio
negoziale, come i colloqui di Losanna, più che il coro di proteste suscitato
nelle cancellerie occidentali dal disastro umanitario di Aleppo Est, abbia
consigliato le forze che sostengono il regime a rallentare il ritmo delle
operazioni militari. Ma Aleppo, oltre a essere una città divisa tra due metà
che non combaciano, è una città ferita, amputata della sua storia e delle sue
bellezze, più di quanto fosse solo sei mesi fa, e dove la vita quotidiana
scorre in mezzo a paure, eccessi e sofferenze, come in certe retrovie di
guerra.
E chi se non i bambini, anche qui a Ovest, come a Est, viene chiamato a
pagare il prezzo più alto? «Giovedì – mi dice Mohammed Khalil, il giovane
direttore del pronto soccorso del “Razi Hospital”, uno dei due ospedali
pubblici destinato ai feriti civili, l’altro è il policlinico universitario,
cui si aggiunge l’ospedale per i militari - è stata la giornata più nera da
molte settimane a questa parte». Quattro bambini, due coppie di fratelli, un
maschio e una femmina, vengono investiti dall’esplosione di un colpo di mortaio
mentre stanno andando a scuola nel quartiere di Suleimanyeh. Morti. Una quinta
bambina, Mouna Abdu di 12 anni, viene ferita alla testa nel quartiere abitato
prevalentemente da armeni di Midan. Uno dei più bersagliati nell’intero corso
della guerra, da 4 anni a questa parte. Mouna ora è nella sala accanto, nel
reparto di rianimazione, legata alla macchina che l’aiuta a respirare. Ha un
buco in testa da cui è un miracolo se non è fuoriuscita materia cerebrale. Tra
garze e sonde si intravedono i bei lineamenti di una bellezza pronta a fiorire.
Ogni tanto apre gli occhi per un riflesso automatico del respiratore. La scena
è straziante, ma i medici confidano che possa riprendersi.
Dietro la porta dell’Emergency, il nonno di Mouna, Mahmud Abdu, 52 anni ,
tassista come il figlio maggiore e padre di Mouna, Shady, freme e si stringe
attorno i parenti, 5 persone tutte ferite, più o meno gravemente, dal piccolissimo
Amr di pochi mesi, sfiorato da una scheggia al collo, alla madre di Mouna,
Fatima, anch’essa colpita alla testa ma ripresasi subito, alla sorellina minore
Maram, fratture alle braccia.
«Mirano sui civili – dice Mahmud, commuovendosi - Vorrei sapere a che
scopo? Che cosa abbiamo fatto?». E racconta che quattro anni fa, quando era
cominciata la cosiddetta “liberazione” di Aleppo, da parte dei gruppi jihadisti
(luglio 2012), penetrati dalla Turchia, lui aveva preso armi e bagagli ed era
fuggito con la famiglia ad Ovest, senza più ritornare nel quartiere di Shahar,
dove era nato. «Mi hanno detto che se me ne fossi andato non mi avrebbero più
fatto rientrare e per chiarire definitivamente i loro propositi si sono presi
la mia casa».
Profugo nella sua stessa città, come centinaia di migliaia di aleppini,
Mahmud ha trovato un appartamento da affittare a Midan. Tre stanze, 750 dollari
al mese. Una buon prezzo, rispetto alla media dei quartieri di Aleppo, dove gli
affitti, dopo il grande afflusso dalla parte orientale sono saliti alle stelle.
Mahmud, rispetto ad altri, è stato fortunato per un motivo semplicissimo:
perché Midan è il quartiere occidentale più bersagliato dai cecchini annidati
dall’altro lato e soprattutto a Bustan al Pasha (Il giardino del Pashà),
separato da Midan da un reticolo di strade interrotte soltanto da qualche
barricata fatta di macerie, copertoni e auto arrugginite su cui pende, a
mo’ di sipario per confondere la mira dei cecchini, una serie di lenzuola.
Ma i razzi Katyusha e i corpi di mortaio sono fatti proprio per sorvolare
gli ostacoli. Lanciarli contro uno spazio super affollato come Aleppo Ovest,
vuol dire sparare nel mucchio con la certezza di colpire qualcuno e in una
società dove la stragrande maggioranza ha meno di 30 anni, non c’è niente di
più facile che colpire dei bambini. Così, giovedì, un ordigno s’è andato a
schiantare sulla facciata di una chiesa, demolendo un pezzo del prospetto e
facendo precipitare di sotto un balcone che ha colpito Mouna e i suoi
familiari.
«Il mese di settembre – mi dice il direttore dell’Istituto di Medicina
Legale, responsabile di tenere aggiornato le statistiche delle vittime
civili ad Aleppo Ovest, Zaher Hayyo – è stata una carneficina».
Mentre l’aviazione russa e l’artiglieria siriana facevano terra bruciata
intorno ai ribelli armati, trincerati nei quartieri orientali, ad Aleppo Ovest
venivano uccisi 32 adulti maschi, 15 donne 73 bambini (inferiori a 16 anni
di età). Ottobre si presenta per così dire migliore: fino al 15 sono stati
uccisi 39 maschi, 11 donne e 16 bambini. Gli strateghi russi, diranno che il
presumibile calo nel numero delle vittime nella parte Ovest sarà dovuto
all’efficacia dei bombardamenti sulle zone orientali.
Nessuno sa esattamente quanta gente viva al di là del confine ideale ma
apparentemente inconciliabile che separa le due città: le stime delle Nazioni
Unite parlano di 275 mila civili e tra 8 e 9 mila ribelli. Ma le stime variano
a seconda dell’ente umanitario che effettua le valutazioni. La verità è che
nessuno si muove da quella trincea sperduta a Oriente della Cittadella. Fino a
due mesi fa c’era persino un autobus che portava funzionari civili e gente
norma- le dall’altra parte. Ma, dice il generale Ghassan, l’alto ufficiale
che dirige il traffico dei mezzi pubblici tra Aleppo e le zone ribelli, «due
mesi fa il governo ha deciso di sospendere la linea con i quartieri orientali,
mentre restano in funzione tutte le altre, da Aleppo per Rakka, Idlib, Mambji,
al Bab e qualsiasi altra località perché il nostro intento è permettere ai
cittadini siriani di mantenere il contatto con i paesi d’origine e con le
famiglie».
In realtà, oltre che formalmente interrotte, le comunicazioni e i passaggi
tra le due metà di Aleppo sono inevitabilmente diventate oggetto della
trattativa che a fasi alterne si apre e si chiude sull’assedio.
Ieri la città occidentale ha conosciuto una mattinata di ordinaria follia,
con il traffico paralizzato a causa della chiusura di intere strade del
centro. Poliziotti baffuti e armati di kalashnikov bloccavano le macchine con
gesti rudi e senza dare spiegazioni: «Lo saprete fra due ore», così alimentando
la ridda di voci. Chi parlava di un’esercitazione militare in pieno centro, chi
di un accordo raggiunto tra il governo di Damasco e gli jihadisti, grazie ai
buoni uffici dell’inviato Onu, l’ambasciatore Staffan De Mistura, per fare
uscire dai quartieri circondati un certo numero di miliziani armati,
probabilmente appartenenti all’organizzazione che un tempo si chiamava Jiabhat
al Nusra ed oggi, dopo un maquillage semantico, si è trasformata in Jiabhat
Fateh al Shiam, “ll fronte della conquista del Levante”, ma che resta un gruppo
legato ad Al Qaeda.
Non è una novità che in seguito ad accordi parziali, o per meglio dire,
locali, tra governo e gruppi armati, si raggiunga una tregua che vede da un
lato la cessazione dei bombardamenti e, dall’altro, la ritirata dei ribelli,
armi in pugno e con la possibilità di portare con sé le famiglie in zone
considerate sicure come la capitale dell’“Emirato” di Al Nusra, Idlib, nel Nord
Ovest del Paese. Un accordo del genere c’è già stato ad Homs, Daraya e due
piccoli villaggi, Al Kala e al Karlil. Perché non dovrebbe poter succedere
anche ad Aleppo?
La zona dove potrebbe concretizzarsi un eventuale accordo, c’è. Questa zona
si chiama “Bustan al Kasr (Il giardino del Palazzo) Passage”. Ed era la zona
che la polizia siriana, ieri mattina, aveva escluso dal traffico. Perché? A
sera s’è saputo che probabilmente era stato raggiunto un accordo per garantire
l’uscita dalla zona assediata a circa 150 jihadisti, in possesso delle loro
armi e con le loro famiglie.
Ma all’ultimo momento qualcosa non ha funzionato e dalle posizioni dei
ribelli a Sultan el Kasser sono partiti due missili: uno è esploso nel
quartiere di Al Masharika, uccidendo una bambina e ferendo gravemente la madre.
L’altro ordigno s’è schiantato a Soulemanyaeh uccidendo due persone e ferendone
almeno 5. Così, quella che poteva essere la prova generale di una possibile
ritirata concordata è miseramente fallita.
La Repubblica, 16 ottobre 2016
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