Una straordinaria rievocazione dei tragici fatti dell'8 luglio 1960 a Palermo, quando la polizia sparò sui manifestanti uccidendo il dirigente sindacale della Fillea Cgil, Francesco Vella, Rosa La Barbera e i giovanissimi Giuseppe Malleo e Andrea Gangitano, e ferendo tanti altri manifestanti.
di DANIELE BILLITTERI
Me lo ricordo. Quel giorno di 56 anni fa a Palermo c'era un caldo
mortale. Una di quelle giornate di luglio piene di umido con una specie di
coperchio sopra una pignata che bolliva. E c'era uno sciopero a Palermo. Ma i
più neanche sapevano perché erano là e cioè per protestare contro il governo
Tambroni che aveva l'appoggio del Movimento Sociale Italiano. Quell'anno il MSI aveva deciso di
tenere il suo congresso nazionale a Genova, città Medaglia d'Oro della Resistenza. L'ondata di
protesta era stata imponente, da Genova a Reggio Emilia, da Bologna a Napoli:
tutti in piazza a protestare. C'erano stati scontri violentissimi e la polizia
del ministro degli interni Mario Scelba non aveva esitato a usare le armi da fuoco. C'erano stati molti morti. Sette solo a Reggio
Emilia. Tutti operai e contadini. In conseguenza di quei tragici scontri la
Cgil proclamo per l'8 luglio lo sciopero generale. Pure a Palermo.
Ma da noi le cose non sono mai come appare. Nel 1960 a Palermo, se
uno sciopero l'avessero dovuto fare solo quelli che lavoravano sarebbe sembrata
una domenica di ferragosto, altro che cortei. In città c'era fame di lavoro,
c'erano i curtigghi, la sporcizia i topi che contendevano le bucce delle fave
ai cristiani. All'inizio del boom economico in Italia, mentre tutti (quelli che
potevano) compravano le Seicento per andare a mare, qui la differenza era che un bambino veniva considerato ricco solo perché aveva le scarpe.
Con quel gran caldo, la pentola tanto bollì che scoppio. Già alle
otto di mattina le strade erano piene e tutti andarono tra il Massimo e il
Politeama che allora erano le zone del centro dei ricchi prima dell'assalto del
Sacco di Palermo in direzione Ovest. Fu li che andarono i morti di fame come a
volere dare uno schiaffo a questa città che batteva i marciapiedi con la scusa che solo così si poteva
dare da mangiare alla famiglia. Quanti delle migliaia di bambini che scesero in
piazza andavano a scuola? Quasi nessuno? E se i bambini erano migliaia, le
scarpe erano decine. Arrivarono senza sapere niente se non che la mattina il
sole sorgeva e loro non avevano niente e la sera tramontava e loro avevano meno
di niente. L'l'alba poi faceva più paura perché il giorno dopo portava i
funerali della speranza. Ma c'era caldo, un caldo schifoso con un vento di
Libeccio che aveva coperto la città una sorta di manta bagnata di acqua
bollente. E i bambini gridavano: governo cornuto, abbiamo fame. Pane e lavoro,
altro che fascisti e comunisti. Pane e lavoro. Questo volevano quei “saettoni”
usciti da curtigghiu Ballone o dal curtigghio Cascino. E si infilavano
dappertutto come l'acido muriatico, come se volessero sturare tutti i i tombini
di questa Matrigna che si sentiva già moderna, con le belle signore
imbellettate che avevano passato l'inverno al Teatro Massimo per l'Opera. E i
mafiosi già contavano milioni sopra milioni e compravano cemento e politica per
costruire a più non posso senza fare fognature, luce, acqua, scuole. Niente.
Palazzi e basta. Ed era solo l'inizio.
I bambini arrivarono vociando e se la presero subito, con la
pensilina degli autobus davanti alla Stazione Centrale e la distrussero. Non si
sa chi li guidava. Forse nessuno. Ma tutti sapevano dove andare, d'istinto. Al
cuore dovevano arrivare. Al cuore dove si ripuliva il sangue dei ricchi. Quelli
che “spardavano la vita”. E “Ora ce lo facciamo vedere noi”. Piccoli ignoranti,
senza cultura. Senza niente. Appunto.
Davanti al Massimo polizia e carabinieri misero mano alle armi. Avevano i moschetti all'antica, i “91/38”
della Grande Guerra e i Mab, Mitra Automatico Beretta. Altro che manganelli.
Piombo, piombo e piombo a chi chiedeva pane. Altro che Tambroni. Pane volevano,
quello dei forni profumati che fanno venire la fame solo a guardarli tra
mafalde, pizziati, torcigliati e reginelle e savoiardi. Che c'entra la
politica? Ma gli agenti non fecero differenza e così morti di fame spararono ad
altri morti di fame.Ma i moschetti li avevano solo i primi e così morirono
morti di fame da una parte sola.
Francesco Vella, che veniva dal villaggio Santa Rosalia, aveva 42
anni e faceva l'operaio. Uno ricco, in confronto, uno con la coscienza,
militante dei sindacati, militante comunista. E, mentre i bambini senza niente
si scatenavano, lui morì non per averli aizzati ma per avere cercato di fermarli,
di ragionare, di spiegare, di accarezzare, di afferrare per le spalle come si
fa con un figlio che si rifiuta di capire. Morì così, sparato al petto, caduto
in una delle stradine che sboccano davanti al teatro dei ricchi.
E Rosa La Barbera che aveva 53 anni? Che ne sapeva lei della
politica? Saggia donna palermitana appena intese “scruscio” si avvicinò per
chiudere la finestra manco se le parlasse il cuore. Ma fu proprio al cuore che
la raggiunse una pallottola vagante. I bambini lasciarono sul terreno Giuseppe
Malleo che aveva solo 16 anni e Andrea Gangitano che ne aveva 14. Buttarono
sangue senza sapere perché né per chi. Ma che altro avevano da buttare se non
il sangue? Niente. Ci furono trentasei feriti da colpi di moschetto e di mitra.
Finirono in questura a prendere legnate in 370 e 70 furono arrestati. Processo
velocissimo, tutti condannati fino a quasi sette anni di galera secondo la
ricostruzione che, dieci anni dopo, fece il giornalista Mauro de Mauro del
giornale L'Ora. Quello che pochi mesi dopo fu fatto scomparire dalla mafia e
non se ne seppe più niente. Dopo la strage la pelle della città si chiuse come
quando scoppia un foruncolo e esce sangue e pus ma poi asciuga. Come se non
fosse successo niente. I bambini se ne tornarono a casa e le madri gli
spiegarono che dal governo uno deve aspettarsi solo guai me che è più forte.
Tanto vale accordarsi e affollare le anticamere dei mascalzoni che spartivano
una scarpa destra prima delle votazioni e una sinistra dopo che erano eletti.
Oppure qualche pacco di pasta. Che ne sapevano Malleo e Gancitano che erano
morti per niente? Ma Francesco Vella me lo immagino morto contento, convinto
che la sua morte sarebbe servita ad aprire la testa a tanti palermitani. Ma era il 1960 e ci voleva ancora
un sacco di tempo. E, di fronte
alle Smart coi neomelodici a manetta e agli iPhone ultimo modello, io penso a
Malleo e Gancitano e mi viene la tristezza. La memoria dovrebbe essere come una
canottiera che se dà fastidio uno se la leva. Ma non è così. Io lo so. C'ero.
C'era caldo quel giorno, un caldo mortale.
Dal profilo Facebook di Daniele Billitteri
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